Sostienici

Aiutaci a sostenere i nostri programmi

Con il tuo contributo sostieni i nostri obiettivi:

  • un impegno culturale continuativo nel campo delle professioni d’aiuto
  • un’offerta interdisciplinare di corsi ECM tenuti da docenti di fama
  • una riflessione critica sui temi sociali del nostro tempo con progetti formativi dedicati
Fondazione Synapsis Mentoring Contatti

L’ETÀ INQUIETA. L’ADOLESCENZA

Jack Beal, "Ragazza in poltrona". © Bridgeman Images.
Crediti: 17 ECM
Costo: 68 €
Durata corso: 17h
Docente:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

L’ETÀ INQUIETA. L’ADOLESCENZA

Razionale scientifico

Un libro di un noto psichiatra e un teen drama di successo aiutano a comprendere psicologia e comportamenti della “generazione Z”, mossa da un insostenibile bisogno di ammirazione cui fa da contraltare un’intollerabile vergogna.

Da sempre impegnato nell’assistenza psicologica ai ragazzi difficili, lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet ha nel suo Istituto “Il Minotauro” un osservatorio speciale sulle giovani generazioni.
Comportamenti e psicologia degli adolescenti della “generazione Z” (e degli adulti che ne condividono spazi e abitudini) sono oggetto di un’analisi lucida, a tratti feroce, esposta nel suo recente libro, L’insostenibile bisogno di ammirazione.
La riflessione psicoanalitica del clinico origina dalla constatazione che tanti di noi, adulti e ancor più adolescenti, siano ormai narcisi eccitati da un solo desiderio: essere ammirati. Non è più il senso di colpa, fondato sul conflitto, a influenzare i nostri comportamenti; a guidarci oggi è il nostro bisogno di riconoscimento sociale, di visibilità continua, di facile notorietà. Né importa affermarsi attraverso le proprie doti e competenze, e neppure ormai esibirne di inesistenti. La paura peggiore, piuttosto, sarebbe di finire in un cono d’ombra sociale.
L’accelerazione imprevedibile dell’attuale dinamica ha una causa secondo Pietropolli Charmet: la morte del patriarcato, con il suo rappresentante più noto, il Padre. Il vecchio modello educativo, durato sino agli anni Cinquanta, era improntato alla severità: la convinzione era che il bambino, dominato dalla sua natura pulsionale, avrebbe inevitabilmente commesso trasgressioni, sia di natura sessuale che aggressiva. Liquidato quel modello è apparso il bambino naturalmente buono, che i genitori hanno cercato di accudire e incentivare in ogni modo. Ed ecco la comparsa di tanti narcisisti.
L’egemonia della cultura etica, pregna – è vero – di esasperato moralismo, ha lasciato il posto a un individuo divenuto insensibile al patrimonio normativo condiviso, che pretende invece di realizzarsi con facilità e rapidamente. Oggi l’inconscio e disperato desiderio dei giovani – e sempre di più degli adulti – è, appunto, suscitare ammirazione. Sarebbe un sentimento del tutto naturale, senza nulla di patologico, se non nell’incontro con la frustrazione dell’indifferenza, con la mortificazione narcisistica. Se l’ammirazione cercata nello sguardo altrui, personale e sociale, non si manifesta, subentra la vergogna: risulta intollerabile essere considerati insignificanti, brutti, indesiderabili. Alla caduta dell’etica condivisa ha corrisposto l’ossessione dell’estetica perfetta, la protervia del potere seduttivo, la sfrontatezza dell’esibizione spudorata.
È una delle conseguenze dell’individualismo, dell’enfasi sul Sé: ma si tratta di un Sé fragile, terrorizzato di non essere all’altezza delle aspettative, che sprofonda facilmente in quella paura della vergogna ormai causa più diffusa del disagio psicologico.

«Finita l’epoca della colpa è cominciata quella della vergogna» afferma Gustavo Pietropolli Charmet. Non sarà un caso che la serie di Netflix Skam, creata in Norvegia, in norvegese significhi proprio “vergogna”. Il desiderio di accettazione, a tutti i costi, da parte dei coetanei, ovvero l’unico orizzonte che conta, muove i comportamenti degli adolescenti protagonisti della versione nazionale, Skam Italia, un successo annunciato dopo l’exploit del format in tutt’Europa.
Pensato come prodotto di entertainment per teen-agers, Skam dovrebbe essere visto anche da genitori e operatori sociali, perché offre uno sguardo realistico fino alla crudezza sull’adolescenza, senza concessioni al sentimentalismo o all’assoluzione. Tutto quanto non sappiamo o forse non vogliamo sapere della vita quotidiana dei nostri ragazzi è fissato nelle prime quattro stagioni della serie, ognuna dedicata a un protagonista e a un tema della crescita: la scoperta del sesso, l’orientamento sessuale, la relazione sentimentale, il divieto e la trasgressione. Tappe di formazione vissute freneticamente, senza alcuna riflessione né preparazione, condizionati dai nuovi modelli imposti dal web ancor più che dal consiglio o dallo sprone dei coetanei. Il rispetto per il proprio corpo e per l’integrità fisica, così come per l’equilibrio psicologico, è ormai dimenticato, vinto dalla baldanza di sfidarne la resistenza con la sfrenatezza di sesso, alcool, droghe, pratiche attualmente comuni alla maggioranza degli adolescenti, siano maschi o femmine. Dominano, per tutti, modelli di bellezza artificiale, disinvoltura sessuale, sballo orgoglioso, ricchezza arrogante.
La frenesia di vivere passioni malate non trova alcun argine nelle figure degli adulti, siano genitori, insegnanti, educatori, dei quali non c’è traccia nella quotidianità di questi adolescenti, nella serie come nella realtà. Una deriva educativa della società occidentale: non a caso nella serie i genitori sono presenti, con l’imposizione di divieti ancestrali all’opposto invalidanti, soltanto nella vita di una giovane protagonista di origine araba e religione islamica.
Lo studio, la formazione personale, appaiono solo come un sottofondo fastidioso e d’intralcio alla soddisfazione di sé, ben oltre la goliarda, nella logica di un vivere di espedienti e mediocrità. Resiste soltanto, ma chissà ancora per quanto, l’istituto della scolarizzazione. Totalmente assenti predisposizioni e passioni individuali, progetti e sguardi sul domani.
Un quadro sconfortante, considerando che gli adolescenti ritratti nella serie hanno la fortuna di appartenere a un’élite, che consente loro di frequentare un liceo, di vivere agiatamente, di non avere altra preoccupazione all’infuori dell’estemporanea soddisfazione di sé.
Unica sicurezza, destabilizzante se assente, è l’essere costantemente connessi al loro mondo tramite i social networks, nella falsa illusione di essere protagonisti perfetti di un mondo ideale, in verità figuranti teleguidati di una dimensione virtuale. Ancor più delle sostanze, forse è questa la più triste delle dipendenze.
La speranza di un senso perduto potrebbe nascondersi nella forza del gruppo, che se in qualche caso innesca derive di “branco”, riesce ancora ad offrire amicizia, sostegno, sentimenti autentici. Che siano da cercare in tale dimensione i fondamenti per una nuova educazione della generazione “Z”?