Vittorio Lingiardi Psichiatra e psicoanalista, Professore ordinario di Psicologia dinamica alla Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
La competenza diagnostica è un elemento cruciale della formazione e dell’identità di ogni clinico, psicologo/a o psichiatra. Per insegnare e apprendere questa competenza non basta la conoscenza, pur indispensabile, dei manuali diagnostici. Occorre una riflessione scientifica e culturale sul concetto di diagnosi, termine che, in ambito psicologico-psicodinamico, troppo spesso genera ancora reazioni di disinteresse, insoddisfazione, diffidenza, ostilità. Per alcuni, la diagnosi è solo un’etichetta al servizio di necessità burocratiche e amministrative; per altri è sinonimo di classificazione normativa e oggettivazione autoritaria; per altri ancora è un riparo nosografico per difendersi dall’enigma del dolore psichico e della patologia mentale. Ci auspichiamo che per la maggior parte dei professionisti della salute, psichica e somatica, la diagnosi coincida con il processo conoscitivo e relazionale che precede e finalizza ogni possibilità di cura. Alla fine degli anni sessanta, Franco Basaglia definiva la diagnosi psichiatrica una terminologia tecnica utile allo “smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è, dove la norma non è un concetto elastico e discutibile, ma qualcosa di fisso e di strettamente legato ai valori del medico e della società di cui è il rappresentante”. È ancora valida questa definizione?
La lezione prenderà le mosse da una riflessione sull’importanza delle fonti (non solo testi scritti, anche narrazioni cinematografiche) nella formazione culturale del clinico, purtroppo oggi spesso affidata a programmi tesi a soddisfare soltanto l’agilità e la rapidità dell’apprendimento. In seguito verrà sviluppato il tema della diagnosi dal punto di vista delle sue diverse funzioni, prima di tutto il rapporto di continuità con le indicazioni terapeutiche. Particolare attenzione verrà rivolta al concetto di diagnosi della personalità e dei suoi disturbi. Accanto alle diagnosi più direttamente legate alle manifestazioni sintomatologiche, infatti, ne troviamo altre che riguardano lo stile delle relazioni e il carattere, che può essere diagnosticato come narcisistico, isterico, paranoide, ossessivo, e così via.
In un passo della Psicopatologia generale, Karl Jaspers annota che «tutti i sistemi diagnostici devono rappresentare un tormento». Una frase che può insegnarci molto, spingendoci a considerare tale tormento come una forma di “tensione diagnostica” tra la necessità di ricondurre il paziente a una categoria generale e, nello stesso tempo, alla sua unicità di individuo. Quando diciamo che qualcuno ha una personalità “ossessiva” o “narcisistica”, oppure che ha un disturbo del comportamento alimentare (tanto per citare diagnosi note), parliamo di lui o di lei come appartenente a una comunità “ideale” di sintomi e strutture, una gestalt diagnostica indispensabile ma mai del tutto sovrapponibile alla persona che ho di fronte. Questo è il motivo per cui, nell’attività clinica, nell’insegnamento e nella supervisione, dobbiamo sviluppare una visione diagnostica binoculare, capace di includere il generale e il particolare, l’etichetta e la formulazione del caso. È l’unico modo per non far naufragare il processo diagnostico tra la Scilla dell’astrazione compilativa e la Cariddi dell’idiosincrasia modellistica e spesso gergale. Entrambe mortificano l’identità professionale del clinico e talora distorcono la sua capacità di rilevare le caratteristiche e il funzionamento mentale del paziente, mettendo così a repentaglio la relazione clinica.
Responsabile della formazione di psicologi clinici e futuri psicoterapeuti, non posso ignorare come molti giovani colleghi si trovino spaesati e forzati a dover “scegliere” tra l’assimilazione di procedure diagnostiche standardizzate e il ricorso a linguaggi clinici nebulosi, per non dire inaffidabili. Per questa ragione mi sono sempre speso per la promozione e lo sviluppo nel contesto italiano di sistemi diagnostici “sensati e sensibili”: la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP-200), rivolta alla valutazione della personalità, e il Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM-2), che propone una diagnostica rigorosamente definita in base all’età (Prima infanzia, Infanzia, Adolescenti, Adulti, Anziani). La mia scommessa è quella di riportare nell’atto del diagnosticare non solo l’interesse, ma anche la passione e la sfida. Questo non significa naturalmente ignorare i ben più rinomati manuali di classificazione diagnostica symptom-behavior oriented, quali l’International Classification of Diseases (ICD) e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM). Piuttosto, si tratta di valorizzare ragionamenti diagnostici capaci di ricondurre il sintomo al contesto della personalità e del funzionamento mentale, in vista della promozione di un trattamento a misura di paziente.
Un ottimo punto di partenza è lo statement che l’American Psychoanalytic Association pubblicò sul suo sito in occasione della pubblicazione del DSM-5: «C’è posto, nel campo della salute mentale, per classificare i pazienti in base alle descrizioni dei sintomi, del decorso della loro patologia, e di altri elementi obiettivi. Sappiamo tuttavia che ogni paziente è unico. Due individui con lo stesso disturbo, sia esso depressione, lutto complicato, ansia o ogni altro tipo di patologia mentale, non avranno mai le stesse potenzialità, necessità di trattamento o risposte agli interventi terapeutici. Che si attribuisca o meno valore alle nomenclature diagnostiche descrittive come il DSM-5, l’assessment diagnostico psicodinamico è un percorso di valutazione complementare e necessario, che si propone di fornire una comprensione profonda della complessità e unicità di ciascun individuo, e dovrebbe far parte dell’assessment diagnostico di ogni paziente, perché questo sia accurato e completo. (…) Consigliamo il PDM a tutti i professionisti della salute mentale interessati a tracciare un quadro diagnostico che descriva sia gli aspetti evidenti sia quelli profondi dei pattern sintomatici, della personalità e del funzionamento emotivo e sociale, di un individuo» (apsa.org, ottobre 2013, cit. in Lingiardi, McWilliams, 2017)».