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LA DIAGNOSI SECONDO I DSM

Emilio Isgrò, "Secundum Iohannem, Habet", 1974. Courtesy Archivio Emilio Isgrò. Bridgeman Images.
Crediti: 1 ECM
Costo: gratuito
Durata corso: 1h
Docente:

Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

LA DIAGNOSI SECONDO I DSM

Razionale scientifico

Tema vasto quello dei DSM (ovvero le varie edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali prodotte dall’American Psychiatric Association), necessariamente da sintetizzare, evidenziandone il retroterra metodologico e presentandone origine e implicazioni filosofiche. Dei cinque DSM il corso accenna inizialmente al primo e al secondo rispettivamente del 1952 e del 1968 – piccoli manuali privi di criteri diagnostici, quindi di scarsa importanza – focalizzandosi sulla rivoluzione del terzo, il DSM-III del 1980. Un manuale che si è imposto quale strumento di lavoro sia tra i clinici e che tra i ricercatori superando come importanza l’ICD (ovvero l’International Classification of Diseases) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Il DSM-5 continua a seguire le caratteristiche principali imposte negli anni Settanta da Robert Spitzer con il DSM-III, introdotto proprio da Paolo Migone, in anteprima per l’Italia, sulle pagine della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (dove ha presentato anche i successivi DSM e i due PDM, cioè le due prime edizioni del Manuale Diagnostico Psicodinamico). Il DSM-III è stato il primo ad adottare un criterio non teorico ma descrittivo, che consiste non nel cogliere le cause della malattia, ma nel descrivere i sintomi così come li vede il clinico: così facendo Spitzer superava lo scoglio delle diverse teorie che impediva ai clinici di trovare un accordo sul metodo diagnostico. Tra le ragioni del DSM-III e dei successivi manuali vi era infatti il salvataggio della psichiatria dalla crisi dell’attendibilità delle diagnosi. Era noto, infatti, che prima del DSM-III risultava che ad esempio vi fossero maggiori diagnosi di schizofrenia negli Stati Uniti che in Europa, ed è stato possibile dimostrare che questa differenza non era epidemiologica ma diagnostica, cioè dovuta a diversi criteri per fare diagnosi.

Ma quali sono i problemi dell’approccio descrittivo? Il più evidente è che il criterio descrittivo ha paradossalmente allontanato la psichiatria dalla medicina, che segue invece criteri eziopatogenetici, ovvero centrati sul rapporto causa/cura. Migone mette poi in luce alcune dicotomie dei DSM.

La prima dicotomia, politetico/monotetico, è riferita ai criteri diagnostici. Il criterio politetico si basa sull’elenco di alcuni criteri diagnostici, alcuni dei quali devono essere presenti, non importa quali, basta un numero minimo. I criteri hanno infatti lo stesso valore ponderale: perché la diagnosi sia soddisfatta conta il loro numero (ad esempio almeno 5 criteri su 9). Questa “democrazia” dei criteri diagnostici è davvero problematica, perché implica che criteri molto diversi tra loro siano uguali, ignorando il fatto che alcuni possono essere la causa della malattia, altri la sua conseguenza. Il criterio monotetico invece presuppone che alcuni criteri siano più importanti di altri, ad esempio uno di essi deve necessariamente essere sempre presente per fare diagnosi, il che potrebbe avere implicazioni per l’eziologia. Ed è questo il motivo per cui Spitzer ha sposato il criterio politetico e non quello monotetico, allontanando però in questo modo la psichiatria dalla medicina che adotta il criterio monotetico, il quale potenzialmente lega maggiormente i sintomi delle malattie alla loro eziopatogenesi. La sua scelta è dovuta al fatto che spesso in psichiatria non si conosce la causa esatta delle malattie: si possono solo postulare cause a seconda della teoria adottata. Quanto alla debolezza del criterio politetico, non riuscendo a fare diagnosi con validità di costrutto ma solo attendibili, alta risulta la comorbilità (specie nelle diagnosi dei disturbi di personalità), fattore che invalida la diagnosi stessa in quanto se ne producono diverse parallele.

La seconda dicotomia, validità/attendibilità, è collegata alla prima perché una diagnosi descrittiva (e per di più basata su criteri politetici) può innalzare solo l’attendibilità, non la validità. Gli indici di validità e di attendibilità devono essere tenuti in un equilibro che in psichiatria è molto delicato.

La terza dicotomia è categorie/dimensioni. Le diagnosi categoriali presuppongono categorie, cioè malattie ideali che in tale forma nessun paziente possiede. L’approccio dimensionale, dove le dimensioni sono i tratti o le caratteristiche di un paziente, è più complesso ma è il preferito dagli psicologi e dai ricercatori, mentre i medici in genere prediligono quello categoriale perché è più pratico, permettendo ad esempio di scrivere una diagnosi sulla cartella clinica.

Nell’approccio dimensionale non si diagnostica se un tratto c’è o non c’è, ma lo si studia lungo un continuum (ad esempio l’umore, o l’ansia) utilizzando scale di valutazione che vanno da un minimo a un massimo. Il modello dimensionale non fu usato nei DSM-III e DSM-IV perché difficile da gestire: infatti al clinico servono etichette (ovvero diagnosi) per cui la sua preferenza va all’approccio categoriale. Ma si può osservare che l’approccio dimensionale, in una certa misura, è presente anche in quello categoriale in quanto un paziente può soddisfare più o meno criteri, quindi si possono contare, il che potrebbe implicare una maggiore o minore gravità. Le categorie sono più astratte ma attraverso determinate scale possiamo misurare la distanza tra il prototipo, cioè la categoria, e il paziente reale. Riassumendo: il modello categoriale è più facile da usare, sebbene rischi di etichettare i pazienti, mentre quello dimensionale è più complesso nella sua applicazione clinica ma più utile per la ricerca e più aderente alla realtà clinica.

Il DSM-III e il DSM-IV hanno adottato il sistema multiassiale, poi espunto dal DSM-5. Tale sistema prevedeva che un paziente fosse visto attraverso cinque prospettive simultanee, le più importanti delle quali sono l’Asse I, per i disturbi clinici, e l’Asse II, per i disturbi di personalità. In un certo senso, si potrebbe dire che l’Asse I riguardi gli “stati” e l’Asse II i “tratti”, che sono dimensioni stabili: generalmente si formano nell’adolescenza e persistono per tutta la vita anche se possono essere in una certa misura modificati dagli eventi di vita e anche dall’intervento psicoterapeutico. I due assi si condizionano reciprocamente. Il sistema multiassiale è stato eliminato dal DSM-5: tale decisione è stata giustificata in base all’assenza di Assi nell’ICD, ovvero l’International Classification of Diseases dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli Assi consentivano di comprendere meglio il quadro clinico, perché ad esempio nell’Asse III venivano elencati di disturbi medici, nell’Asse IV i fattori psicosociali stressanti e nell’Asse V il funzionamento psicosociale, per cui in un certo qual modo si poteva tentare di comprendere il paziente da un punto di vista psicodinamico, o almeno da più punti di vista, anche psicosociali.

Vi era l’aspettativa che il DSM-5 riuscisse a superare la crisi dei DSM. Il tentativo di Spitzer di raggiungere non solo l’attendibilità ma anche la validità è fallito, e la comorbilità si è rivelata il tallone di Achille dei DSM. Per risolvere tale impasse il DSM-5 ha introdotto maggiormente l’approccio dimensionale come uno dei modi di parare le critiche sempre più frequenti al modello categoriale, introducendo ad esempio la necessità che in determinate diagnosi alcuni criteri diagnostici fossero sempre presenti.

Nella sezione sui disturbi di personalità, che costituiva una delle parti più deboli dei DSM-III e DSM-IV, nel DSM-5 si è formulato un nuovo modello dimensionale, basato su una accuratissima ricerca. Ma alla votazione dei garanti, pochi giorni prima della pubblicazione del manuale, tale sistema venne escluso perché troppo complesso e faticoso da applicare, e si temeva che tale complessità potesse incidere sulle vendite del manuale. Non si poté fare altro allora che reintrodurre nel DSM-5 tutte le precedenti diagnosi di personalità del DSM-IV, con i relativi problemi di validità; si aggiunse solo una diagnosi, un disturbo di personalità dovuto a un fattore organico, ad esempio a un tumore cerebrale.
Altre novità del DSM-5 sono l’introduzione del concetto dimensionale di “spettro” applicato a vari disturbi, per esempio all’autismo, e l’abbassamento delle soglie per formulare la diagnosi. Come molti autori critici hanno fatto notare, questo abbassamento delle soglie implica un aumento di diagnosi con un conseguente maggiore uso di farmaci nella popolazione, a vantaggio delle case farmaceutiche. Si è anche formato un movimento internazionale di boicottaggio del DSM-5, al quale hanno partecipato anche i capi delle task force dei due precedenti DSM. Il movimento in certe sue frange estremiste si è poi trasformato in una campagna contro la diagnosi in quanto tale, e quindi ha perso la sua efficacia nell’incidere sulle scelte del DSM-5; a quel punto Allen Frances, capo della task force del DSM-IV, comprensibilmente decise di ritirare la sua adesione a questo movimento.

Nella conclusione del corso si accenna al “modello alternativo” dei disturbi di personalità, scartato dal manuale ma comunque pubblicato in una sezione a parte; è basato su cinque dimensioni, che fanno capo a due dimensioni sovraordinate che si riferiscono – per riprendere gli studi di Sid Blatt che hanno avuto una certa influenza sulla costruzione di questo modello – ai concetti di “autonomia” (definizione del Sé) e di “dipendenza” (relazione con le altre persone). A questo proposito si accenna a questa polarità fondamentale della personalità, che presenta aspetti interessanti anche dal punto di vista psicodinamico.

Per un trattamento più approfondito sui DSM si può consultare il cap. 12 del libro di Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, FrancoAngeli, 1995, 2010, e il suo articolo “Presentazione del DSM-5” nel n. 4/2013 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.

 

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IL DISTURBO BORDERLINE

Edward Munch, "Stanislaw Przybyszewski", 1895. Bridgeman Images.
Crediti: 1 ECM
Costo: gratuito
Durata corso: 1h
Docente:

Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

IL DISTURBO BORDERLINE

Razionale scientifico

Il webinar affronta un tema molto importante e dibattuto, che da decenni interessa terapeuti, teorici e istituzioni. Il dottor Paolo Migone ne ripercorre gli aspetti descrittivi, psicodinamici e terapeutici, in un excursus storico che arriva fino alle ricerche più recenti.

La lezione prende le mosse dalla nascita della parola “borderline”, originariamente aggettivo, diventata nel tempo sostantivo secondo alcune classificazioni diagnostiche, per poi tornare aggettivo secondo altre. Se alla metà del Novecento il disturbo, associato alla schizofrenia (e per questo si parlava di borderline schizophrenia, in cui borderline era un aggettivo che significava “al bordo della schizofrenia”), collocava questi pazienti gravi in una terra di mezzo tra nevrosi e psicosi ma vicini alla psicosi, la valutazione cambiò radicalmente con Robert Spitzer. Lo psichiatra americano, a capo della task force incaricata di redigere il DSM-III del 1980, elencò una serie di criteri diagnostici dai quali emergeva un nuovo significato del termine “borderline”. Il paziente che ne è affetto verrà inizialmente definito come caratterizzato da una unstable personality (personalità instabile) e descritto non più come vicino alla schizofrenia bensì come impulsivo, arrabbiato, a volte molto depresso. Quindi con la nuova diagnosi potremmo dire che il paziente borderline non si colloca più vicino alla schizofrenia ma all’altra delle due psicosi maggiori, la psicosi maniaco-depressiva, oggi chiamata “disturbo bipolare”. Questa tendenza a dare priorità ai disturbi dell’umore peraltro caratterizzerà tutta l’impostazione del DSM-III.

La storia del disturbo borderline nel susseguirsi dei vari DSM è ripercorsa da Migone soffermandosi in particolare sul DSM-5, la cui sezione sui disturbi di personalità venne totalmente rinnovata su basi dimensionali e non più categoriali, ma che la stessa American Psychiatric Association decise all’ultimo momento di abbandonare giudicandola troppo complessa per il clinico (il timore era che non venisse utilizzata, o che il manuale non si diffondesse a sufficienza, con danni economici dato che le spese sostenute erano state ingenti). Il nuovo modello dimensionale per i disturbi di personalità del DSM-5 non fu incluso ufficialmente nel manuale ma fu comunque pubblicato in una sezione a parte, per cui nel manuale non si poté fare altro che ripubblicare tali e quali i disturbi di personalità così come erano nel DSM-IV, con i relativi problemi di bassa validità e conseguente alta comorbilità (quest’ultima, come è noto, è vero tallone d’Achille dei DSM, soprattutto nei disturbi di personalità). L’unica differenza è che, essendo stati eliminati nel DSM-5 gli Assi, i disturbi di personalità non sono più nell’Asse II ma sono elencati assieme a tutti gli altri disturbi mentali.

Migone elenca i nove criteri diagnostici del disturbo borderline del DSM-IV (e quindi del DSM-5), sottolineandone gli aspetti problematici per quanto riguarda la validità di costrutto, tanto è vero che fu presa in considerazione anche la possibilità di eliminarlo dal manuale.

Vengono poi passate brevemente in rassegna le numerose definizioni del disturbo borderline date già a partire dai primi decenni del Novecento, per mostrare quanti ricercatori, anche e soprattutto di area psicoanalitica, lavorarono attorno a questo quadro clinico. Un autore che dagli anni 1960-70 ha dato contributi importanti è Otto Kernberg, che ha parlato non più di “disturbo” ma di “organizzazione” borderline, definita da tre criteri diagnostici non descrittivi (come è nei DSM) ma intrapsichici. La organizzazione borderline sottende a diversi “disturbi” di personalità, e si colloca nel continuum della terra di mezzo tra nevrosi e psicosi. Anche John Gunderson, un altro psichiatra e psicoanalista americano, darà, assieme a Kernberg, contributi molto importanti per la costruzione dei criteri diagnostici che Spitzer utilizzerà per il DSM-III.

Otto Kernberg, che è uno dei più noti psicoanalisti, racconta la sua frustrazione nel suo iniziale tentativo di lavorare sui borderline utilizzando la teoria psicoanalitica tradizionale, a partire dalla constatazione che i pazienti presentavano manifestazioni opposte che egli non riusciva a interpretare dato che entrambe erano consce: questi pazienti erano privi di una struttura psichica stabile, per cui era inutile tentare di interpretare un materiale inconscio, non essendovi la barriera della rimozione. La difesa della rimozione era sostituita dalla scissione (splitting), un meccanismo di difesa che secondo Kernberg può considerarsi il vero marker della struttura borderline (in modo figurato, potremmo dire che la rimozione implica una divisione orizzontale della psiche, con la parte sottostante che è inconscia e quella soprastante che è conscia, mentre la scissione implica una divisione verticale, che frammenta le rappresentazioni mentali). Era come se – osservò Kernberg, e con lui James Grotstein e altri – dopo il primo paradigma della psicoanalisi, ovvero l’isteria, se ne fosse imposto un nuovo, il disturbo borderline. Nel paziente borderline non si trova infatti un’identità integrata, bensì il vuoto nel rappresentarsi, senza immagini del Sé e degli altri coerenti e stabili. Ecco dunque, secondo Kernberg, il compito del terapeuta: invece di interpretare, dovrà aiutare il paziente a integrare tali immagini scisse tramite soprattutto la tecnica del confronto (confrontation).

Kernberg formulerà poi un manuale di tecnica per i pazienti borderline chiamato Transference-Focused Psychotherapy (TFP), “terapia focalizzata sul transfert”, mirata a confrontare il paziente con le proprie dinamiche psichiche alternanti e contraddittorie. Molto importante nella sua tecnica è il cosiddetto “contratto”, stipulato tra terapeuta e paziente prima dell’inizio della terapia, di cui Migone porta alcuni esempi riguardo alle regole da rispettare per evitare agiti (acting out) impulsivi fuori controllo. Un aspetto strategico dai risultati concreti.

Il Mentalization-Based Treatment (MBT), formulato da Peter Fonagy insieme ad Anthony Bateman, è un’altra tecnica oggi molto usata, curiosamente opposta a quella di Kernberg pur essendo entrambe di derivazione psicoanalitica. Per lo psicoanalista inglese Fonagy, data la struttura psichica del borderline molto danneggiata, incapace di mentalizzare (ovvero di saper rappresentare stati mentali propri e altrui), non serve un lavoro interpretativo e introspettivo (il riferimento implicito è a Kernberg), bensì un approccio “mentalizzante”, empatico, che aiuti il paziente a costruire il proprio mondo interiore. Il terapeuta deve cioè rappresentarglielo, affinché il borderline impari a riconoscere i propri stati mentali e a “costruire” la propria mente. Per questo motivo – spiega Migone – in un certo senso si può dire che i borderline, non avendo una mente, nel rapporto con gli altri spesso non possano fare altro che usare il corpo, ad esempio ricorrendo alla violenza.

Un’altra tecnica molto diffusa è la Dialectical Behavior Therapy (DBT) formulata da Marsha Linehan, psicologa statunitense di orientamento cognitivo-comportamentale. Si tratta di un pacchetto di interventi di vario tipo, molto diversificati, a due sedute settimanali (una individuale e una di gruppo). Interessante, a differenza di Kernberg che preferisce non essere “disturbato” dalle telefonate dei pazienti, la disponibilità della Linehan a essere sempre reperita nel caso il paziente si senta tentato da agiti impulsivi o suicidari; nelle telefonate con i pazienti la terapeuta suggerisce comportamenti alternativi altrettanto fisici, capaci di distogliere il paziente dal proprio impulso. Fondamentale per la formulazione della propria tecnica è stata per la Linehan la propria storia di donna, dalla formazione femminista e soprattutto di giovane dal passato borderline, che l’ha condotta ad aiutare gli altri grazie alla propria esperienza. La stessa Linehan alcuni anni fa ha fatto outing sul suo passato, raccontando dei suoi ricoveri e mostrando pubblicamente le braccia ancora segnate dai tagli che si procurava quando il dolore fisico la distoglieva da quello psicologico.

Nella sua tecnica “dialettica”, la Linehan concettualizza che i pazienti oscillino tra due eccessi dicotomici (bianco o nero, idealizzazione e svalutazione, ecc.), sono cioè incapaci di integrare i poli estremi dell’esperienza della realtà, per cui va loro insegnato a stare in equilibrio, a vedere la realtà sempre in modo dialettico, nel senso che i due estremi sono esagerazioni di una stessa realtà che va vista in modo più realistico ed equilibrato. Curiosamente – osserva Migone – questa operazione a livello clinico è quasi identica a quella che fa Kernberg quando cerca di integrare le immagini scisse nei suoi pazienti borderline (e non va dimenticato a questo proposito che, come ricorda spesso la stessa Linehan, è stato Kernberg a farla conoscere alla comunità psicoterapeutica, avendo subito capito quanto fosse brava e intuitiva nell’aiutare i pazienti borderline).

Per chi volesse approfondire i temi trattati nel webinar, si suggerisce di leggere il volume di Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, FrancoAngeli, 1995, 2010.

 

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DIAGNOSI, PERSONALITÀ, RELAZIONE. Lectio di Vittorio Lingiardi

John Davies, "One Figure". 1969. © Sainsbury Centre for Visual Arts/Sainsbury Collection/Bridgeman Images.
Crediti: 2 ECM
Costo: gratuito
Durata corso: 2h
Docente:

Vittorio Lingiardi Psichiatra e psicoanalista, Professore ordinario di Psicologia dinamica alla Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

DIAGNOSI, PERSONALITÀ, RELAZIONE. Lectio di Vittorio Lingiardi

Razionale scientifico

La competenza diagnostica è un elemento cruciale della formazione e dell’identità di ogni clinico, psicologo/a o psichiatra. Per insegnare e apprendere questa competenza non basta la conoscenza, pur indispensabile, dei manuali diagnostici. Occorre una riflessione scientifica e culturale sul concetto di diagnosi, termine che, in ambito psicologico-psicodinamico, troppo spesso genera ancora reazioni di disinteresse, insoddisfazione, diffidenza, ostilità. Per alcuni, la diagnosi è solo un’etichetta al servizio di necessità burocratiche e amministrative; per altri è sinonimo di classificazione normativa e oggettivazione autoritaria; per altri ancora è un riparo nosografico per difendersi dall’enigma del dolore psichico e della patologia mentale. Ci auspichiamo che per la maggior parte dei professionisti della salute, psichica e somatica, la diagnosi coincida con il processo conoscitivo e relazionale che precede e finalizza ogni possibilità di cura. Alla fine degli anni sessanta, Franco Basaglia definiva la diagnosi psichiatrica una terminologia tecnica utile allo “smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è, dove la norma non è un concetto elastico e discutibile, ma qualcosa di fisso e di strettamente legato ai valori del medico e della società di cui è il rappresentante”. È ancora valida questa definizione?

La lezione prenderà le mosse da una riflessione sull’importanza delle fonti (non solo testi scritti, anche narrazioni cinematografiche) nella formazione culturale del clinico, purtroppo oggi spesso affidata a programmi tesi a soddisfare soltanto l’agilità e la rapidità dell’apprendimento. In seguito verrà sviluppato il tema della diagnosi dal punto di vista delle sue diverse funzioni, prima di tutto il rapporto di continuità con le indicazioni terapeutiche. Particolare attenzione verrà rivolta al concetto di diagnosi della personalità e dei suoi disturbi. Accanto alle diagnosi più direttamente legate alle manifestazioni sintomatologiche, infatti, ne troviamo altre che riguardano lo stile delle relazioni e il carattere, che può essere diagnosticato come narcisistico, isterico, paranoide, ossessivo, e così via.

In un passo della Psicopatologia generale, Karl Jaspers annota che «tutti i sistemi diagnostici devono rappresentare un tormento». Una frase che può insegnarci molto, spingendoci a considerare tale tormento come una forma di “tensione diagnostica” tra la necessità di ricondurre il paziente a una categoria generale e, nello stesso tempo, alla sua unicità di individuo. Quando diciamo che qualcuno ha una personalità “ossessiva” o “narcisistica”, oppure che ha un disturbo del comportamento alimentare (tanto per citare diagnosi note), parliamo di lui o di lei come appartenente a una comunità “ideale” di sintomi e strutture, una gestalt diagnostica indispensabile ma mai del tutto sovrapponibile alla persona che ho di fronte. Questo è il motivo per cui, nell’attività clinica, nell’insegnamento e nella supervisione, dobbiamo sviluppare una visione diagnostica binoculare, capace di includere il generale e il particolare, l’etichetta e la formulazione del caso. È l’unico modo per non far naufragare il processo diagnostico tra la Scilla dell’astrazione compilativa e la Cariddi dell’idiosincrasia modellistica e spesso gergale. Entrambe mortificano l’identità professionale del clinico e talora distorcono la sua capacità di rilevare le caratteristiche e il funzionamento mentale del paziente, mettendo così a repentaglio la relazione clinica.

Responsabile della formazione di psicologi clinici e futuri psicoterapeuti, non posso ignorare come molti giovani colleghi si trovino spaesati e forzati a dover “scegliere” tra l’assimilazione di procedure diagnostiche standardizzate e il ricorso a linguaggi clinici nebulosi, per non dire inaffidabili. Per questa ragione mi sono sempre speso per la promozione e lo sviluppo nel contesto italiano di sistemi diagnostici “sensati e sensibili”: la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP-200), rivolta alla valutazione della personalità, e il Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM-2), che propone una diagnostica rigorosamente definita in base all’età (Prima infanzia, Infanzia, Adolescenti, Adulti, Anziani). La mia scommessa è quella di riportare nell’atto del diagnosticare non solo l’interesse, ma anche la passione e la sfida. Questo non significa naturalmente ignorare i ben più rinomati manuali di classificazione diagnostica symptom-behavior oriented, quali l’International Classification of Diseases (ICD) e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM). Piuttosto, si tratta di valorizzare ragionamenti diagnostici capaci di ricondurre il sintomo al contesto della personalità e del funzionamento mentale, in vista della promozione di un trattamento a misura di paziente.

Un ottimo punto di partenza è lo statement che l’American Psychoanalytic Association pubblicò sul suo sito in occasione della pubblicazione del DSM-5: «C’è posto, nel campo della salute mentale, per classificare i pazienti in base alle descrizioni dei sintomi, del decorso della loro patologia, e di altri elementi obiettivi. Sappiamo tuttavia che ogni paziente è unico. Due individui con lo stesso disturbo, sia esso depressione, lutto complicato, ansia o ogni altro tipo di patologia mentale, non avranno mai le stesse potenzialità, necessità di trattamento o risposte agli interventi terapeutici. Che si attribuisca o meno valore alle nomenclature diagnostiche descrittive come il DSM-5, l’assessment diagnostico psicodinamico è un percorso di valutazione complementare e necessario, che si propone di fornire una comprensione profonda della complessità e unicità di ciascun individuo, e dovrebbe far parte dell’assessment diagnostico di ogni paziente, perché questo sia accurato e completo. (…) Consigliamo il PDM a tutti i professionisti della salute mentale interessati a tracciare un quadro diagnostico che descriva sia gli aspetti evidenti sia quelli profondi dei pattern sintomatici, della personalità e del funzionamento emotivo e sociale, di un individuo» (apsa.org, ottobre 2013, cit. in Lingiardi, McWilliams, 2017)».

 

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PSICOTERAPIA ONLINE. Nuove forme di trattamento

© Lucrezia Stella - IdLab.
Crediti: 17 ECM
Costo: 68 €
Durata corso: 17h
Docente:

Massimiliano Spano Psicologo-psicoterapeuta, presidente di Jonas Torino e responsabile clinico del Servizio di Educativa Territoriale per pazienti alcol e tossico-dipendenti, Val d’Aosta

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

PSICOTERAPIA ONLINE. Nuove forme di trattamento

Razionale scientifico

Negli ultimi anni si è assistito a un incremento delle terapie da remoto condotte, soprattutto, tramite l’uso delle nuove tecnologie Internet. L’aumento della mobilità e delle possibilità di comunicazione istantanea ha, di fatto, prodotto una trasformazione sociale e individuale, del concetto di relazione e del concetto di tempo e di spazio.

Per il filosofo Luciano Floridi viviamo in un’infosfera nella quale oltre il corpo, anche il tempo vissuto ha un nuovo paradigma. Ciò che percepiamo essere una linea di demarcazione netta fra online e offline è, ormai, un modo obsoleto per concepire il tempo e il luogo (fisico e psichico) in cui il soggetto agisce. Lo sviluppo delle tecnologie e dei nuovi media influenza radicalmente la condizione umana modificando la relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo che ci circonda. Il tempo che viviamo è il tempo dell’onlife, che unisce due piani, quello della realtà quotidiana delle cose in cui ci troviamo immersi (life) e il dominio digitale (online). Così noi siamo a metà strada tra offline e online, tra le cose “reali” e un piano virtuale, digitale, non certo meno “reale”.
Sherry Turckle, fra le prime psicologhe a occuparsi della relazione tra tecnologia e il Sé e dell’influenza dei nuovi media sull’essere umano, si spinge ancora oltre e sostiene che la tecnologia si propone come architetto della nostra intimità.

È a partire da queste considerazioni che l’uso delle nuove tecnologie nella psicoterapia richiede attente valutazioni.
In tema di trasformazioni sociali è necessario chiedersi come possiamo continuare una terapia con pazienti che si sono trasferiti per lavoro in un’altra città o in un altro Stato; oppure come possiamo rispettare il diritto dei nostri pazienti alla continuità delle cure quando sono costretti a casa da una lunga malattia o per condizioni di sicurezza sociale (come la corrente pandemia). Dal punto di vista del rapporto paziente-terapeuta bisogna domandarsi se è possibile per un paziente avere un’esperienza significativa di relazione quando la terapia è svolta da remoto, o che cosa succede quando riduciamo le nostre relazioni terapeutiche alle due dimensioni di uno schermo piatto.
Paolo Migone, già diversi anni fa, ha firmato un’accurata riflessione sul tema delle terapie online, fornendo un esauriente approfondimento a partire dalle questioni relative al setting, così come delineate nei due noti lavori di Freud del 1913 e del 1914 (numero delle sedute, luogo, uso del lettino, etc.). Migone, provocatoriamente, sostiene che la psicoterapia con Internet non avrebbe alcuna particolare peculiarità “più di quanto non ve ne sia per le psicoterapie praticate in setting eterodossi come nuove frontiere che hanno messo alla prova la coerenza intera della cosiddetta tecnica classica nel suo sviluppo storico”.
Le questioni relative al setting, tuttavia, non sono le sole a porre interrogativi importanti. I dispositivi teorici e tecnici della psicoanalisi si scontrano con altre domande quando la terapia è svolta online: quanto può essere efficace un’analisi che non preveda la presenza del corpo nella stanza? Ci può essere una buona sintonizzazione affettiva? Il medium elettronico potrebbe determinare l’instaurarsi di fenomeni transferali e controtransferali che più difficilmente possono essere colti, in quanto nascosti nell’opacità del mezzo tecnologico?
La terapia da remoto su schermo (a maggior ragione via telefono) privilegia l’aspetto uditivo. Non si incontrano corpi, non si incrociano sguardi. Così, l’utilizzo delle nuove tecnologie nella psicoterapia potrebbe confinare il processo psicoanalitico all’analisi di “stati della mente” e non di “stati dell’essere”.

Nel suo recente lavoro Psicoanalisi attraverso lo schermo, la psicoanalista britannica Gillian Isaacs Russel affronta tali tematiche e prende in considerazione limiti e potenzialità delle terapie online, a partire anche dai campi delle neuroscienze, della comunicazione e dell’infant observation. In particolare l’autrice fa notare come alcuni autori si concentrino sul potenziale di incontro emotivo, di sintonizzazione o mancanza di sintonizzazione, che si può riscontrare in qualunque setting psicoanalitico, rendendo questa “concezione astratta e simbolica” dell’incontro fra le menti importabile nelle sedute a distanza e sufficiente per un profondo cambiamento psichico. Su un altro piano la Isaacs Russell sottolinea come oggi si sia più consapevoli che il modo con cui le esperienze primitive vengono comunicate non è il linguaggio verbale. Questo costringe a implicare il terapeuta riguardo alle sue sensazioni corporee, le sue percezioni allucinatorie o psicosomatiche. Quindi la diade paziente-analista, per approfondire il processo psicoanalitico, avrebbe bisogno dell’esperienza tradizionale della presenza fisica e non solo di una presenza simulata dalla tecnologia.

Fatte salve le diverse posizioni in merito alla terapia da remoto, è opinione comune che la psicoanalisi debba confrontarsi con le nuove tecnologie e con le innovazioni che esse producono nel campo terapeutico, aprendo la strada a nuove potenzialità di cura che le possibilità di contatto via Internet potranno dare.

Programma

Studio dei testi:

Luciano Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, 2020

Sigmund Freud, Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, Bollati Boringhieri

Paolo Migone, La psicoterapia con internet, Psicoterapia e Scienze Umane, XXXVII, 4: 57-73, 2003

Gillian Isaacs Russell, Psicoanalisi attraverso lo schermo, Astrolabio-Ubaldini Editore, 2017

 

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PSICOLOGIA DEL MALE

François Rude, "La Marseillaise", 1835. Bridgeman Images.
Crediti: 10 ECM
Costo: 40 €
Durata corso: 10h
Docente:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Responsabile corso:

Elena Camerone

Concluso

PSICOLOGIA DEL MALE

Razionale scientifico

Chiunque di noi, in particolari circostanze, può infierire contro un altro essere umano. Una serie di esperimenti di psicologia sociale, nonché la fiction letteraria e cinematografica basata su fatti realmente accaduti, stanno a dimostrarlo. Lo scarto (confortante) tra “buoni” e “cattivi” sfuma sino ad annullarsi e persino la dicotomia tra “bene” e “male” perde il suo valore di categoria morale.

Nel saggio Psicologia del male lo psicologo sociale Piero Bocchiaro cerca di spiegare i motivi per cui la gente comune può arrivare ad agire in modo malvagio. Concezione predominante nella nostra cultura è che le azioni crudeli siano l’esito della personalità deviata o del patrimonio genetico di chi le compie: una logica che indurrebbe a scavare nella psiche di questi individui per comprendere le ragioni di tali condotte. La popolarità di tale convinzione è legata al beneficio assolutorio che ne deriva, sia per la società, in tal modo alleggerita dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per coloro che non hanno mai agito in modo crudele, che possono così continuare a credere di essere diversi dai malvagi. Nel suo libro Bocchiaro mette in discussione proprio questa credenza, avanzando la prospettiva che chiunque, in determinate circostanze, possa infierire contro un altro individuo. Numerosi esperimenti dimostrano infatti che quando noi esseri umani ci troviamo in contesti estremi diventiamo vulnerabili a forze che prendono il sopravvento e ci orientano verso condotte di tenore negativo, inimmaginabili se si considerano le abituali caratteristiche della nostra personalità. In ogni individuo – sostiene l’autore – esiste dunque un potenziale di crudeltà, in qualche caso anche spiccato, pronto ad emergere in determinate occasioni. Tale conclusione è sostenuta da numerose ricerche di psicologia condotte in laboratorio e sul campo negli anni Sessanta che, benché vietate dal decennio successivo in seguito a valutazioni di natura etica, ancora ci aiutano a comprendere la cronaca attuale: pestaggi, stupri di gruppo, reazioni di indifferenza alla violenza o al dolore. Anziché indagare soltanto la personalità dei protagonisti di tali episodi, Bocchiaro si volge dunque prevalentemente all’esterno, indagando i fattori psicosociali che predispongono al male. Posti in parallelo con fatti di cronaca relativamente recenti, i quattro classici esperimenti di Milgram sull’obbedienza all’autorità, di Darley e Latané sulla diffusione della responsabilità insieme ai due studi di Zimbardo sulla deindividuazione e sulla prigione di Stanford, sono raccontati nel libro con un linguaggio narrativo più che scientifico, al dichiarato scopo che quanto accaduto in laboratorio possa essere compreso anche dai non esperti. Ma se è vero che le dinamiche situazionali possono orientare e predisporre al male, per l’autore rimane il fatto che una condotta riprovevole sia stata messa in atto e che condannarla è doveroso. Lontano dunque ogni intento giustificazionista o assolutorio, vale soltanto l’esigenza di comprendere. Sapere che siamo tutti esposti al potere della situazione – chiosa Bocchiaro – dovrebbe renderci più vigili nei confronti delle varie forze psicosociali che nostro malgrado possono investirci, accrescendo di conseguenza lo sforzo per contrastarle.

Dalla sua pubblicazione nel 1981 ha avuto grande eco, fino a diventare un piccolo classico, il romanzo L’onda dello scrittore statunitense Todd Strasser. La finzione letteraria, che ha come fondamento un fatto realmente accaduto in una high school statunitense nel 1969, racconta dell’esperimento condotto nella sua classe da un professore liceale. Per spiegare il fenomeno ai suoi studenti, increduli del consenso oceanico all’ideologia nazista nella Germania di Hitler, Ben Ross costituisce l’onda: un nuovo movimento, guidato da un leader carismatico, egli stesso, dotato di un simbolo accattivante, un’onda appunto, fondato su un motto, “la forza è disciplina, la forza è comunità, la forza è azione”. Se ogni suo membro, come da regolamento interno, agisce per il bene dell’organizzazione sostenendo gli affiliati in difficoltà, nei confronti dei non iscritti si scatenano ben presto condotte repressive e persino violente. Nella finzione come nella realtà, visto che nella scuola californiana dove il fatto realmente avvenne, ancora si ricordano i tre anni di soprusi e terrore prima dello scioglimento dell’organizzazione. Gli esperimenti di psicologia sociale riportati nel suddetto volume di Bocchiaro trovano dunque espressione letteraria nel romanzo di Strasser, ritratto dell’essere umano colto alla svolta di una scelta: anteporre l’ideologia del gruppo alle proprie convinzioni etiche.

Programma

Studio dei testi:

Paolo Bocchiaro, Psicologia del male, Laterza, 2009

Todd Strasser, L’onda. La storia non è un gioco, BUR, 2014

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NEVROSI OSSESSIVA

Egon Schiele, "Ritratto di Paris von Gütersloh", 1918. © Minneapolis Institute of Art/Bridgeman Images.
Crediti: 13 ECM
Costo: 52 €
Durata corso: 13h
Docente:

Carlo Brosio Psicoanalista membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e full member IPA

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

NEVROSI OSSESSIVA

Razionale scientifico

Si propone un percorso di apprendimento e riflessione sulla nascita e lo sviluppo del fondamentale concetto clinico di nevrosi ossessiva nell’ambito della psicoanalisi.
I testi su cui si incerniera la discussione sono gli imprescindibili saggi freudiani sotto citati, i lavori della scuola kleiniana e post kleiniana e il lavoro monografico della “Rivista di Psicoanalisi” sulla nevrosi ossessiva a cura di Enrico Mangini, che offre un quadro dell’evoluzione del concetto clinico e della sua riconfigurazione alla luce del cambiamento di paradigma avvenuto con l’avvento della prospettiva interpersonale in psicoanalisi.

Gli scritti di Freud sulla nevrosi ossessiva
All’inizio del secolo con Il caso dell’uomo dei topi (1909) Sigmund Freud si trova davanti ad una delle più affascinanti e misteriose patologie mentali che contribuirà a far uscire dalle nebbie del misticismo ottocentesco permettendone una comprensione clinica. Le sue costruzioni esplicative resero praticabile un avvicinamento ai tormenti dell’ossessivo, ai suoi dubbi, ai suoi rituali e ruminazioni. La descrizione psicoanalitica della nevrosi ossessiva compiuta da Freud ha reso atto della lotta senza quartiere affrontata da questo giovane paziente contro la sofferenza psichica: la sua ambivalenza, il bisogno disperato di controllo delle emozioni, la lotta contro i desideri proibiti, la qualità rigida e implacabile delle sue proibizioni interne, la necessità, per sopravvivere psichicamente, di fare ricorso al pensiero magico.
Già nel 1907 in Azioni ossessive e pratiche religiose Freud focalizza il tema del rapporto fra ossessività e rituali cerimoniali indicando nella nevrosi ossessiva la religione privata dell’individuo. E ancora in Totem e Tabù (1912-13) torna sulla concordanza fra fenomeni ossessivi e rituali magici delle società arcaiche. Nel 1925 con Inibizione, sintomo e angoscia egli riprende più distesamente il concetto di “rendere non accaduto” già incontrato nell’analisi dell’Uomo dei topi, che qui diventa una delle radici del cerimoniale ossessivo e consente la comprensione della coazione a ripetere.
Il genio di Freud permise di assegnare alla nevrosi ossessiva un posto stabile fra i grandi quadri nosografici inaugurati dalla psicoanalisi: egli infatti definì la specificità eziopatologica di questa nevrosi dal punto di vista dei meccanismi di difesa (spostamento dell’affetto, isolamento, annullamento retroattivo), dal punto di vista pulsionale (ambivalenza, fissazione anale, regressione), topico (interiorizzazione di un super-io crudele) e relazionale (sado-masochismo, carattere anale).

I contributi successivi e il consolidamento del modello clinico-teorico: Anna Freud, la scuola kleiniana
I contributi successivi a Freud sono ben sintetizzati dalle osservazioni di Anna Freud presentate al termine del Congresso dell’International Psychoanalytic Association del 1965 sulla nevrosi ossessiva, che sostanzialmente ribadiscono le posizioni classiche: centralità dei fattori costituzionali responsabili dell’intensità anomala delle tendenze sadico-anali e della scelta da parte del nevrotico ossessivo degli specifici meccanismi di difesa che determinano il quadro sintomatologico. Aspecificità, dal punto di vista eziologico, della ricerca di cause determinanti il disturbo ossessivo nello sviluppo precoce del bambino; importanza delle relazioni famigliari e delle modalità di educazione nell’attivare invece la regressione e la conseguente fissazione alla fase anale determinata dalle tendenze libidiche costituzionali; difetto della funzione sintetica e conseguente difficoltà nella fusione di amore/odio, passività/attività, mascolinità/femminilità.
L’approccio alla nevrosi ossessiva è quindi rimasto saldamente ancorato ai concetti metapsicologici della tradizione classica, mentre si è assistito a sempre più sottili quanto utili distinzioni in ambito clinico-diagnostico fra nevrosi ossessiva propriamente detta, manifestazioni ossessive, carattere ossessivo, tratto e stile ossessivo. Si veda al proposito: Savo Spaçal, La nevrosi ossessiva, in A. A. Semi (a cura di), Trattato di psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.
Grande lavoro è stato fatto, attraverso l’osservazione e il trattamento dei pazienti ossessivi, per individuare le peculiari difese che distinguono questa patologia: isolamento, spostamento, annullamento, depersonalizzazione sono i meccanismi difensivi specifici attraverso i quali l’ossessivo si protegge da angosce insopportabili.
Il successivo apporto della scuola kleiniana sviluppa il tema dell’ossessività individuando l’evolversi della qualità dei fenomeni ossessivi, che procedono da un’ossessività primitiva caratterizzata da angosce psicotiche legate al controllo e al dominio fino ai meccanismi ossessivi connessi alla riparazione dell’oggetto e accompagnati quindi dalla cura, dall’amore e dalla considerazione per esso.
Tra i più importanti successori della Klein, Donald Meltzer nel 1975 considera l’utilizzo difensivo dei meccanismi ossessivi in bambini autistici come tentativo di ipersemplificazione massiva dell’esperienza attraverso la separazione e il controllo onnipotente sugli oggetti interni o esterni.

La nevrosi ossessiva nel pensiero psicoanalitico contemporaneo: la monografia sulla nevrosi ossessiva a cura di Mangini
Nella letteratura internazionale contemporanea viene evidenziata la necessità di costruire condizioni di fiducia nella relazione analitica mantenendo viva l’attenzione ad evitare che il sintomo ossessivo aderisca, rinvigorendosi, alle ritualizzazioni del setting o dell’analista. Il peculiare metodo delle libere associazioni è infatti particolarmente ostico all’ossessivo che tende a vivere come una grave minaccia il libero flusso dei contenuti che si presentano alla coscienza come portatori di quote di emozioni avvertite come incontrollabili. La stessa interpretazione è spesso percepita dal paziente come contropartita quantitativa dell’onorario elargito all’analista quando non direttamente intrusiva e sadica. La relazione analitica è quindi costantemente polarizzata dal conflitto fra il bisogno dell’ossessivo di porre fine al proprio soffocante isolamento affettivo e la grande angoscia che promuove una condizione di intimità nel rapporto.
L’evidenza clinico-teorica dell’impossibilità di permanere oggi nel quadro concettuale di una psicologia unipersonale ancorata al modello pulsionale freudiano, di cui è paradigma la cura del paziente ossessivo, rende necessario costruire nuovi modelli psicopatologici e terapeutici che tengano conto dell’importanza non solo dell’equazione personale dell’analista, ma della complessa interazione della coppia analitica e degli apporti legati all’ipotesi traumatica dell’eziologia della sofferenza mentale. Un’ipotesi che, in questa prospettiva, supera l’eziopatogenesi del conflitto intrapsichico della nevrosi ossessiva, considera l’ambiente primario deficitario in relazione al predominio dei criteri quantitativi nelle prime relazioni oggettuali che non consentirebbe al bambino di sostare sufficientemente nell’area fusionale: una madre inadeguata a vivere essa stessa l’esperienza che sta attraversando non riuscirebbe a farsi usare come oggetto trasformativo accettando naturalmente la rinuncia temporanea a una chiara demarcazione del confine del proprio sé. L’indisponibilità materna nel donarsi generosamente, senza calcolo, ma con calore e pienezza al contatto mentale e fisico non fornirebbe quell’ambiente necessario alle esperienze appropriate alle prime fasi dello sviluppo del bambino.
Complessivamente nella collettanea di Enrico Mangini del 2005 dal titolo La nevrosi ossessiva che riunisce testimonianze di analisti impegnati nella terapia del paziente ossessivo, sembra assumere rilevanza la funzione interpretativa veicolata da interventi più interlocutori e narrativi, destinati non solamente alla descrizione del mondo interno del paziente, ma anche alla costruzione di una reciproca sintonizzazione che possa facilitare i processi evolutivi della coppia analitica (Stern, 1998). Diventa centrale l’idea che l’innesco traumatico sia alla base di questa patologia. Incontrando questi individui mortificati nel loro diritto a esistere, l’analista potrà affrontare il loro isolamento e le loro ritualizzazioni ponendosi in ascolto di quegli elementi non ancora sufficientemente strutturati per essere riconoscibili: sensazioni, disagi somatici, immagini mentali e quant’altro percorra il campo emotivo in cerca di consistenza e parola. L’insorgere di riverberi controtransferali costituisce l’unica traccia da poter seguire per raggiungere isole di affetti spesso sorprendenti.

Programma

Studio dei testi:

E. Fachinelli, La freccia ferma, Adelphi, 1992

S. Freud, L’uomo dei topi, Bollati Boringhieri, 1976

S. Freud, Azioni ossessive e pratiche religiose, Bollati Boringhieri

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IL MALE DEL SECOLO

Edvard Munch, "La ragazza malata", 1896. © Christie’s Images/Bridgeman Images.
Crediti: 27 ECM
Costo: 81 €
Durata corso: 27h
Docente:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Responsabile corso:

Elena Camerone

Concluso

IL MALE DEL SECOLO

Razionale scientifico

Tracciano una storia clinica e privata del cancro due libri dall’ampia eco, entrambi vincitori del Premio Pulitzer per l’incedere letterario, importanti per capire quella che ogni epoca potrebbe definire “la malattia del secolo”. Un’occasione per confrontare anche le differenze di cura e le possibilità di riuscita nei diversi Paesi, occidentali e non, laddove più o meno incidente è il sistema capitalistico della salute.

Dalla sua uscita, un decennio fa, L’Imperatore del male è diventato un testo fondamentale: per i professionisti e gli studiosi dell’oncologia per il rigore scientifico che lo sottende, quanto per ogni paziente o lettore che, pur privo di strumenti, voglia comprendere i meccanismi della malattia.
Il racconto segue anche la crescita professionale e l’evoluzione personale dell’autore, Siddhartha Mukherjee, allora giovane medico di origine indiana con studi accademici brillanti a Oxford, oggi oncologo e docente di fama presso la Columbia University di New York, nonché divulgatore scientifico pluripremiato.
All’origine della stesura del volume i rapporti umani dell’oncologo agli esordi con i suoi primi pazienti, con una paziente in particolare che, senza sottrarsi alla durezza di terapie reiterate ma ogni volta inefficaci, chiedeva almeno di comprendere contro cosa stava combattendo. Dal senso di impotenza e pietas del medico, che tra la letteratura scientifica non trovava un testo adatto a rispondere a quella domanda, è nato il volume: scritto proprio perché mancava. Ed ecco la prima “biografia del cancro”, frutto di sei anni di ricerche: un’opera monumentale di oltre 600 pagine, che ha il pregio di potersi leggere a più livelli di comprensione grazie all’estro letterario dell’autore.
Oltre che diario del biennio di specializzazione in oncologia, il volume racconta la storia dell’evoluzione del trattamento chirurgico e farmacologico dei tumori dall’antichità ad oggi. Dal papiro egizio “Smith” che per primo menziona la malattia, a Ippocrate che coniò il nome di “cancro”, fino a Galeno e successori, che con strumenti empirici tentarono di curare il male. Le prime cure concrete si avvalsero della chirurgia, tanto più efficace con l’introduzione di disinfezione e anestesia. Al rischio di recidive tentò di porre rimedio la scoperta dei Raggi x, e già arriviamo all’alba del XX secolo: una ricerca che prosegue oggi, affinché le nuove terapie chemioterapiche colpiscano soltanto i tessuti sani e contengano i danni collaterali. Focalizzato sul sistema sanitario statunitense, nell’alternanza di conquiste entusiasmanti e drammatici errori, il volume comprende un capitolo dedicato agli oncologi italiani: Umberto Veronesi e Gianni Bonadonna, esempio di collaborazione tra chirurgia e chemioterapia negli anni ’70. Prevenzione, cronicizzazione e genetica sono l’approccio dell’oncologia attuale.
Se le statistiche parlano di un aumento dei casi di cancro nel mondo (negli Usa una donna su tre e un uomo su due scopriranno di averlo nel corso della vita), la prossima “normalità” della malattia è auspicata dall’autore. Un cambiamento radicale dagli ultimi decenni, quando “cancro” era ancora parola impronunciabile.

«Non volevo esistere a livello simbolico quale immagine della malattia: sono una persona vera, con bisogni reali, e concreto è stato il mio percorso di paziente. Forse per questo la scrittura non mi riusciva, non ne andavo fiera, finché mi sono ricordata di essere una poetessa: potevo forzare il linguaggio». Lo ha detto Anne Boyer in una recente intervista a proposito del suo libro Non morire. L’autrice americana lo scrive, finalmente guarita, al termine del suo percorso di malata di cancro al seno, particolarmente aggressivo, diagnosticatole all’età di 41 anni.
Non si tratta di un racconto lineare, bensì di una raccolta di episodi, emozioni, pensieri registrati alla scoperta della malattia, dopo l’intervento, durante la chemioterapia. Paura, dolore, depressione attraversano la scrittura, ma come da intenti l’autrice rifiuta la narrazione attualmente in voga del cancro: ovvero un nemico interno al proprio corpo, contro il quale il paziente-guerriero deve ingaggiare una battaglia, da vincere anche grazie alla forza di volontà. «Una persona riceve una diagnosi, una terapia, e poi vive o muore. Se vive sarà un eroe o un’eroina, se muore sarà uno snodo narrativo» ha scritto la Boyer smascherando lo stereotipo ormai pervasivo, che dimentica tutti coloro che dal cancro non escono vincitori. Ma uscire dalla metafora del combattere non significa smettere di incoraggiare le donne malate di cancro al seno, bensì liberarle dal meccanismo dell’equazione tra atteggiamento e risultato. «Morire di cancro non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti» infierisce l’autrice. «Il fallimento morale del cancro è invece nel mondo che fa ammalare le persone, le manda in bancarotta per una cura e le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa delle loro morti». Con riferimento al sistema sanitario americano presso il quale si è curata, la Boyer sostiene che addossare la responsabilità della guarigione sul malato significhi allontanare lo sguardo della collettività dalle colpe sociali e ambientali, nonché dal peso del business capitalistico della salute. Censo, classe, istruzione, etnia, genere determineranno l’accesso alle cure e il loro successo, non l’atteggiamento emotivo e la forza di volontà di chi soffre della malattia.
Da scrittrice ed ex malata, Anne Boyer non dimentica infine di liberare lo scrittore che abbia vissuto l’esperienza della malattia sulla propria pelle dall’obbligo morale di narrarsi, quasi imposto a chi abbia la fortuna di guarire.

Programma

Studio dei testi:

Anne Boyer, Non morire, La Nave di Teseo, 2020

Siddhartha Mukherjee, L’imperatore del male. Una biografia del cancro, Mondadori, 2020

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IDENTITÀ

Sigmund Freud e il suo busto, 1932. Collection Bourgeron/Bridgeman Images.
Crediti: 19 ECM
Costo: 76 €
Durata corso: 19h
Docente:

Vincenzo Villari Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

IDENTITÀ

Razionale scientifico

Il corso intende proporre una riflessione sulle dimensioni individuali e sociali dell’identità attraverso lo studio di un testo di Giovanni Jervis e la lettura di tre brevi testi letterari.

Giovanni Jervis nel suo libro del 1997 La conquista dell’identità affronta un tema centrale per l’individuo e per la società. L’identità individuale e collettiva è oggi argomento critico per la grande quantità di stimoli e cambiamenti a cui tutti siamo sottoposti e che rendono necessario da un lato un forte “ancoraggio” e dall’altro capacità evolutive talvolta anche frenetiche. L’identità è la possibilità di riconoscersi ed essere riconosciuti dagli altri quindi ha una componente intrapsichica e una sociale. Questa consiste nel modo in cui gli altri ci percepiscono e dal rimando che ci danno della loro percezione che, quindi, si confronta con l’immagine che ciascuno ha di sé. Altro aspetto della componente sociale dell’identità è rappresentato da quello che ciascuno pensa di come gli altri lo percepiscano. Per la definizione della componente intrapsichica è fondamentale la dimensione diacronica che coincide con la biografia e la capacità di narrarsi (identità narrativa) il cui corrispettivo sociale è rappresentato dalla riconoscibilità che persiste, nonostante gli inevitabili cambiamenti che avvengono nel tempo. Vi è un continuo scambio tra queste due dimensioni talché la continuità intrapsichica si basa anche sulla riconoscibilità sociale che contribuisce a dare il senso di sé. Il problema dell’identità va oltre la dimensione individuale e riguarda entità sovra individuali (i gruppi, le nazioni, le popolazioni, ecc.) e costituisce la base per la definizione dell’identità etnica.

I seguenti testi garantiscono un approfondimento sia di tipo clinico, sia in una prospettiva più ampia e multidisciplinare delle tre dimensioni identitarie prima presentate: quello che uno pensa di sé, quello che gli altri pensano di noi, quello che uno pensa che gli altri pensano di lui.

La metamorfosi di Franz Kafka. Il brutto sogno di Gregor Samsa non svanisce con il risveglio diventando così una convinzione identitaria presto condivisa anche dai familiari. La sua nuova identità così lo imprigiona e risulta talmente inaccettabile e odiosa per tutti che i suoi familiari giungono all’atto estremo di eliminarlo.

I baffi di Emmanuel Carrère. Il protagonista si taglia i baffi un po’ così, un po’ per stupire Agnès, la moglie, che però non mostra alcuno stupore e gli dice che non ha mai avuto i baffi. Aspettando che il gioco finisca, l’uomo vede con crescente stupore che anche amici e colleghi negano che lui li abbia mai avuti. Così cresce il malessere che diventa angoscia quando Agnès, col fare risoluto di chi vuole porre fine a un capriccio, raschia via i baffi dalla foto della carta d’identità. Da qual momento l’angoscia cresce e dilaga oltre i confini del sé, così l’identità si disperde nel mondo fino a giungere a conseguenze estreme.

La panne di Friedrich Dürernmatt. Il rappresentante di commercio Alfredo Traps si trova per caso in compagnia di persone che trascorrono il loro lento tempo da pensionati facendo un gioco di simulazione di processi storici. In cambio della cena egli dovrà fare l’imputato: la sua identità cade, così, in un gioco di rimandi surreali in cui perde il rapporto con la realtà. L’azione progressiva, e forse anche un po’ sadica dei suoi ospiti, lo porta in una condizione di totale alienazione, vittima di un gioco forse in origine anche bonario, ma troppo sottile – e implacabile – per lui che non riesce a coglierlo per quello che è. Quindi quella che i suoi occasionali compagni di gioco ritengono essere la sua identità transitoria utile al divertimento di una sera, diventa per lui talmente vera da spingerlo all’estrema conclusione. Gustosissimo e macabro il commento dei compagni che lo rimproverano di aver rovinato il divertimento: “Alfredo, mio caro Alfredo! Ma cosa ti sei messo in testa, santo cielo? Ci rovini la più bella serata della nostra vita!”.

In questi tre brevi deliziosi racconti vengono magistralmente descritte le tre dimensioni identitarie prima enunciate: Gregor Samsa si sente insetto convincendo tutti, ben oltre gli affetti familiari; Agnès e i suoi amici pensano una cosa non vera spingendo, così, il protagonista all’autodistruzione; Alfredo Traps è talmente devastato da quello che pensa che i suoi compagni pensino di lui da perdere completamente la lucidità e maturare la profonda convinzione di essere un criminale. E tutte e tre le storie si concludono con la morte, inevitabile conseguenza della dissoluzione dell’identità.

Programma

Studio dei testi:

Giovanni Jervis, La conquista dell’identità, TheDotCompany, 2020

Franz Kafka, La metamorfosi, BUR, 2013

Emmanuel Carrere, I baffi, Adelphi, 2020

Friedrich Dürrenmatt, La panne. Una storia ancora possibile, Adelphi, 2014

 

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LA FORMAZIONE DEL SINTOMO PSICHICO

Vasilij Kandinskij, "Parecchi cerchi", 1926. Bridgeman Images.
Crediti: 3 ECM
Costo: 12 €
Durata corso: 3h
Docente:

Vincenzo Villari Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

LA FORMAZIONE DEL SINTOMO PSICHICO

Razionale scientifico

L’uomo desidera sempre un oggetto mostruoso.
E la sua vita assume valore soltanto se la consacra interamente a tale inseguimento.
Jean Giono, “Pour saluter Melville”, 1941, trad. it. Guanda, 2020

Articolato su due testi, il corso propone una riflessione sulle teorie psicopatologiche e psicodinamiche che spiegano, o tentano di illustrare, i meccanismi attraverso i quali l’angoscia si manifesta e si trasforma in sintomi strutturati, configurando le diverse forme cliniche.

Inibizione, sintomo e angoscia (1925), classico lavoro della riflessione matura di Sigmund Freud, si basa sulla necessità di distinguere la genesi dell’angoscia da quella dei sintomi, che vengono, quindi, posti su piani diversi. In questo il lavoro di Freud assume una dimensione psicopatologica, oltre che psicodinamica. Infatti egli ipotizza che l’angoscia origini primariamente dal trauma della nascita e della separazione dalla madre. Ciò assume innanzitutto un significato di trauma biologico vista l’immaturità del neonato come organismo e la sua totale dipendenza dalla madre senza la quale la sopravvivenza sarebbe impossibile. In seguito subentra una dimensione psicologica dell’angoscia che Freud in un primo momento mette in relazione all’angoscia di castrazione, anche se si mostra subito incerto sulla possibilità esplicativa di tale modello che in parte critica rendendosi conto della difficoltà di applicarla al genere femminile. Successivamente l’angoscia diviene tout court angoscia di morte. I sintomi (fobici, ossessivi, isterici) invece nascono dalla necessità di alleviare la tensione indotta dall’angoscia che viene così trasformata dall’apparato psichico in manifestazioni più stabili e tollerabili, anche se in parte disfunzionali.

In Mondi psicopatologici Giovanni Stanghellini e Milena Mancini introducono l’importante distinzione tra umore e affetti e illustrano il meccanismo psicopatologico secondo il quale i primi si trasformano nei secondi. L’umore è uno stato soggettivo non focalizzato e quindi molto più angoscioso, a differenza dell’affetto che, essendo focalizzato è più facile da mentalizzare ed evacuare. Inoltre l’umore si accompagna a una scarsa o nulla consapevolezza delle sue origini e motivazioni intrapsichiche, mentre l’affetto è legato a una rappresentazione da cui deriva l’idea che l’oggetto sia il responsabile dello stato di angoscia che viene così evacuato. Importante anche il concetto di organizzatore psicopatologico che viene introdotto più avanti e che è strettamente connesso al processo euristico che serve a guidare la conoscenza e la comprensione degli aspetti psicopatologici dell’altro e quindi anche al processo diagnostico. Tale dimensione si configura dunque in uno spazio intersoggettivo in cui il terapeuta mentalizza la condizione dell’altro e poi la trasforma in una dimensione linguistico-descrittiva nell’ambito del processo di diagnosi che, così, è già parte del progetto/processo di cura.

Programma

Studio dei testi:

Sigmund Freud, Inibizione sintomo e angoscia (capitoli 2-10), Bollati Boringhieri, 1988

Giovanni Stanghellini, Milena Mancini, Mondi psicopatologici (capitolo 9), Edizioni Edra, 2018

Ulteriori letture consigliate:
– Carl Jaspers, Psicopatologia generale, parte quarta, cap. 2, pp. 685-718, Il pensiero scientifico editore, 1964
– Nina Coltart, Pensare l’impensabile, capitoli 4 e 5, pp. 45-76, Raffaello Cortina Editore, 2017
– Shitij Kapur, Psychosis as a State of Aberrant Salience: A Framework Linking Biology, Phenomenology, and Pharmacology in Schizophrenia, in Am J Psychiatry 2003; 160:13–23

 

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LA FINE DEL MONDO

Arca di Noé, Scuola inglese, 1860. © Museum of London/Bridgeman Images.
Crediti: 4 ECM
Costo: 12 €
Durata corso: 4h
Docente:

Armando Toscano Psicologo sociale e manager del Terzo Settore; fondatore di CORE-Lab e coordinatore dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Responsabile corso:

Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta

Concluso

LA FINE DEL MONDO

Razionale scientifico

Il tema della fine dell’umanità non può essere ignorato in questo passaggio storico cruciale, perché parte integrante dello Zeitgeist i cui siamo immersi.

Il cambiamento climatico e la conseguente crisi ambientale rendono evidente e trasportano sul piano tecnico quanto a livello culturale era già stato reso noto a partire dagli anni ‘90, con l’idea della “risk society” del sociologo tedesco Ulrich Beck (Risk Society: Towards a New Modernity, Sage 1992). La pandemia di Coronavirus, inoltre, catapulta l’intero Occidente in un tunnel temporale, lo proietta negli immaginari medioevali della peste bubbonica, tanto quanto in quelli distopici di un futuro senza prospettive. Nella pratica clinica, ma anche nell’analisi della contemporaneità, le professioni psichiatrica e psicologica sono chiamate a stare dentro i fenomeni, con una lettura teorica, ma anche fuori, comprendendoli epistemiologicamente.

Navigare nel sito web TEDxTorino del meteorologo Luca Mercalli aiuta ad avvicinarsi a un tema di cui si parla moltissimo ultimamente e di cui è bene possedere le coordinate principali. Sarà necessario sentirsi padroni almeno delle definizioni fondamentali, per poter costruire un discorso e uno sguardo consapevoli. Nella clip Crisi climatica e antropocene Mercalli schematizza la dinamica del cambiamento climatico, ne identifica le principali cause scatenanti, definisce i limiti alla crescita e gli accordi internazionali.

A supporto di un rafforzamento della competenza sulle tematiche legate al rischio, il paper From risk calculation to narratives of danger del filosofo argentino Silvio Funtowicz fornisce alcune antinomie utili a comprendere nel dettaglio i processi macroscopici in atto. Rischio e pericolo, calcolo e narrazione, tecnica e politica, sono categorie che configurano il dibattito attuale non solo sui cambiamenti (climatici, sociali, antropologici), ma anche sul ruolo che il sapere scientifico debba avere nella gestione della complessità e su come il sapere tecnico possa sposarsi con l’apertura democratica.

The end of History?, la critica storica del politologo statunitense Francis Fukuyama, costituisce un architrave del discorso sulla fine. L’idea che la Storia stessa possa essere giunta a una conclusione ha rappresentato una suggestione forte nelle Scienze Sociali, che devono riscoprire la propria funzione di interpreti ma anche di promotori del cambiamento. In particolare Fukuyama sottolinea l’impatto che la caduta del muro di Berlino ha avuto non solo sul piano politico, ma anche culturale. Se prima il dibattito tra liberismo e comunismo era globale e acceso, diffuso e animato, dopo il 1989 ogni posizione rischia di diventare complanare, interna allo stesso paradigma, e si ravvisa la tristezza dell’impossibilità di ricostruire e coagulare una critica esterna.

Il testo centrale, fulcro e collante agli argomenti-satellite suggeriti dai contributi di questo percorso, è un classico di Sigmund Freud: Il disagio della civiltà. Scritta nel 1929, l’anno della grande crisi che mise in luce la parziale inconsistenza del progetto razionalista borghese, è un’opera anomala nella sua proposta. Per la prima volta affronta il conflitto in una dimensione quasi cosmica, identificando il ruolo delle spinte contrapposte della pulsione sessuale e della pulsione distruttiva nella Storia e nell’evoluzione. La civiltà, sostiene Freud, controlla la pulsione distruttiva, la domina, «[…] coltiva le più alte attività psichiche, siano queste intellettuali, scientifiche o artistiche, e attribuisce alle idee una funzione di guida nella vita umana». L’interrogativo conclusivo dell’opera, tuttavia, lascia una sospensione potente: sarà in grado la civiltà di trattenere la pulsione distruttiva umana ancora a lungo?

Programma

Studio dei testi:

L. Mercalli, TEDx Talks, Crisi climatica e Antropocene. I problemi, le soluzioni, video

S. Funtowicz, From Risk Calculation to Narratives of Danger, paper

F. Fukuyama, The End of History? The National Interest, Summer 1989, paper

S. Freud, Il disagio della civiltà, Einaudi, 2010