Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Mario Mattioda Consulente psicodinamico e operatore psicosociale. Collabora con diverse riviste tra cui “Psicoterapia e scienze umane”
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Innumerevoli i testi di psicologia, i romanzi, i film centrati sulla figura della madre, mutata nel suo ruolo nel corso del Novecento, con un’accelerazione decisiva negli ultimi anni. È proprio sul protagonismo della madre, ancor prima del suo rapporto con il figlio, che intende focalizzarsi questo percorso.
Partiamo dal saggio di Massimo Recalcati Le mani della madre, in cui l’autore affronta il tema della Madre, domandandosi cosa ne resti di lei al tempo della sparizione della sua rappresentazione patriarcale. Rigettando ogni nostalgia nei confronti dell’immagine “della madre del sacrificio e dell’abnegazione” imposta dalle leggi del padre-padrone, Recalcati concentra la sua analisi sull’attuale condizione femminile, non più appiattita sulla maternità, ma esposta a una tormentata integrazione tra l’essere donna e il ruolo di madre. Oggi infatti le donne lavorano, hanno raggiunto la libertà sessuale, non si propongono più quali “madri-coccodrillo” che divorano il loro frutto, ma “quali madri-narcise” che spesso vivono i figli come un ostacolo alla propria realizzazione sociale. Inoltre, in un’ipermodernità in cui il coito non è più necessario alla fecondazione, il sesso si allontana dalla natura per consegnarsi alla scienza: e la maternità da destino si trasforma in progetto, producendo una filiazione emancipata dalla dimensione naturalistica della famiglia. Una metamorfosi che impone una correzione di quelle letture preconcette della funzione materna che assegnavano alla madre il compito necessario ed esclusivo della cura del figlio o, all’opposto, uno spazio caotico e prelinguistico che soltanto l’intervento paterno poteva regolare.
Prestandosi il soggetto al cinema, proponiamo tre film disponibili sulla piattaforma Netflix, che spaziano tra Paesi e culture, tra epoche ed estetiche, documentando le variazioni di un istinto alla maternità messo in crisi dalla società occidentale emancipata. Con la cautela che un tabù impone.
Mother, film giapponese del 2020 di Tatsushi Omori, regista della nuova vague nipponica, presenta una madre che ha abdicato al proprio ruolo educativo, o meglio, non lo considera necessario per i suoi figli né per se stessa. La donna, cresciuta in una tradizionale famiglia piccolo-borghese, viene mostrata con crudezza nelle fasi sempre più estreme del rifiuto del suo ambiente, al quale preferisce il degrado di una vita da sbandata, vittima di alcool, delinquenza, profittatori. Un figlio primogenito e poi una bambina, entrambi senza padri, la seguono silenziosi e attoniti nella sua esistenza raminga, più come compagni di disavventure che come figli, privati di qualsiasi forma di educazione, genitoriale e scolastica. Mai, neppure al compimento dell’atto più estremo, la madre si pone dubbi sul proprio sciagurato comportamento, mai, nemmeno quando le conseguenze rovinano la vita del figlio e risparmiano la sua, si pente della propria nefasta influenza. Immagineremmo da parte dei figli ribellione e odio, invece no: obbedienza e amore, incondizionati a dispetto di tutto. Forse perché mai questa madre, protagonista ed egoista, sceglie di non far nascere o di abbandonare i suoi figli, nonostante le pressioni e le lusinghe della famiglia e della società.
Invisible, pellicola argentina datata 2017 del regista emergente Paolo Georgelli, già in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, propone un tema di attualità, avendo il paese sudamericano approvato di recente la legge sull’aborto. Nel film invece la vicenda è condizionata dal divieto ancora vigente all’interruzione di gravidanza, con cui si scontra la giovane protagonista quando scopre di essere incinta. Una ragazza di diciassette anni, come il titolo suggerisce “invisibile” agli occhi degli altri, siano la madre, l’amante, i compagni di scuola, i partner occasionali. Non bella, volutamente scialba, all’apparenza emotivamente indifferente ad ogni persona accanto a lei e ad ogni avvenimento le capiti, si direbbe condannata a una vita grigia e solitaria. Salvo la svolta, proprio nel finale, quando la decisione di non rinunciare alla maternità appare come il modo di manifestare la sua presenza al mondo, gradita o sgradita che sia. E di sentire finalmente su di sé lo sguardo di una creatura: la sua.
Si torna a una concezione tradizionale della figura materna nel film georgiano del 2017 My Happy Family, firmato dalla giovane coppia di registi Nana Ekvtimishvili e Simon Gross. In una società ancora fortemente patriarcale (che in realtà sono le donne a governare) Manana è una donna di mezza età che ha compiuto il suo ciclo biologico di figlia, moglie, madre e si appresta ad entrare nel ruolo di nonna. Agli anni che la attendono, scontato perno di una famiglia numerosa e problematica, la protagonista sceglie di sottrarsi per andare a vivere da sola, in un appartamento in affitto che il suo lavoro di insegnante le consente. Nella scarna semplicità della nuova casa, solo all’apparenza squallida, finalmente silenziosa quando non abitata dalla musica di Mozart, arredata appena da libri e fiori, la sua femminilità spenta rifiorisce, per bastare soltanto a se stessa. Inutile spiegare alla famiglia, preoccupata dal disonore sociale più che affranta dall’assenza di Manana, i motivi di una scelta che poche donne a quell’età e in quel contesto avrebbero il coraggio di compiere. Mentre allo spettatore appare chiaro come la ritrovata individualità della protagonista non significhi affatto abdicare al proprio ruolo di madre, al contrario governarlo senza esserne sopraffatta.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Un libro di un noto psichiatra e un teen drama di successo aiutano a comprendere psicologia e comportamenti della “generazione Z”, mossa da un insostenibile bisogno di ammirazione cui fa da contraltare un’intollerabile vergogna.
Da sempre impegnato nell’assistenza psicologica ai ragazzi difficili, lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet ha nel suo Istituto “Il Minotauro” un osservatorio speciale sulle giovani generazioni.
Comportamenti e psicologia degli adolescenti della “generazione Z” (e degli adulti che ne condividono spazi e abitudini) sono oggetto di un’analisi lucida, a tratti feroce, esposta nel suo recente libro, L’insostenibile bisogno di ammirazione.
La riflessione psicoanalitica del clinico origina dalla constatazione che tanti di noi, adulti e ancor più adolescenti, siano ormai narcisi eccitati da un solo desiderio: essere ammirati. Non è più il senso di colpa, fondato sul conflitto, a influenzare i nostri comportamenti; a guidarci oggi è il nostro bisogno di riconoscimento sociale, di visibilità continua, di facile notorietà. Né importa affermarsi attraverso le proprie doti e competenze, e neppure ormai esibirne di inesistenti. La paura peggiore, piuttosto, sarebbe di finire in un cono d’ombra sociale.
L’accelerazione imprevedibile dell’attuale dinamica ha una causa secondo Pietropolli Charmet: la morte del patriarcato, con il suo rappresentante più noto, il Padre. Il vecchio modello educativo, durato sino agli anni Cinquanta, era improntato alla severità: la convinzione era che il bambino, dominato dalla sua natura pulsionale, avrebbe inevitabilmente commesso trasgressioni, sia di natura sessuale che aggressiva. Liquidato quel modello è apparso il bambino naturalmente buono, che i genitori hanno cercato di accudire e incentivare in ogni modo. Ed ecco la comparsa di tanti narcisisti.
L’egemonia della cultura etica, pregna – è vero – di esasperato moralismo, ha lasciato il posto a un individuo divenuto insensibile al patrimonio normativo condiviso, che pretende invece di realizzarsi con facilità e rapidamente. Oggi l’inconscio e disperato desiderio dei giovani – e sempre di più degli adulti – è, appunto, suscitare ammirazione. Sarebbe un sentimento del tutto naturale, senza nulla di patologico, se non nell’incontro con la frustrazione dell’indifferenza, con la mortificazione narcisistica. Se l’ammirazione cercata nello sguardo altrui, personale e sociale, non si manifesta, subentra la vergogna: risulta intollerabile essere considerati insignificanti, brutti, indesiderabili. Alla caduta dell’etica condivisa ha corrisposto l’ossessione dell’estetica perfetta, la protervia del potere seduttivo, la sfrontatezza dell’esibizione spudorata.
È una delle conseguenze dell’individualismo, dell’enfasi sul Sé: ma si tratta di un Sé fragile, terrorizzato di non essere all’altezza delle aspettative, che sprofonda facilmente in quella paura della vergogna ormai causa più diffusa del disagio psicologico.
«Finita l’epoca della colpa è cominciata quella della vergogna» afferma Gustavo Pietropolli Charmet. Non sarà un caso che la serie di Netflix Skam, creata in Norvegia, in norvegese significhi proprio “vergogna”. Il desiderio di accettazione, a tutti i costi, da parte dei coetanei, ovvero l’unico orizzonte che conta, muove i comportamenti degli adolescenti protagonisti della versione nazionale, Skam Italia, un successo annunciato dopo l’exploit del format in tutt’Europa.
Pensato come prodotto di entertainment per teen-agers, Skam dovrebbe essere visto anche da genitori e operatori sociali, perché offre uno sguardo realistico fino alla crudezza sull’adolescenza, senza concessioni al sentimentalismo o all’assoluzione. Tutto quanto non sappiamo o forse non vogliamo sapere della vita quotidiana dei nostri ragazzi è fissato nelle prime quattro stagioni della serie, ognuna dedicata a un protagonista e a un tema della crescita: la scoperta del sesso, l’orientamento sessuale, la relazione sentimentale, il divieto e la trasgressione. Tappe di formazione vissute freneticamente, senza alcuna riflessione né preparazione, condizionati dai nuovi modelli imposti dal web ancor più che dal consiglio o dallo sprone dei coetanei. Il rispetto per il proprio corpo e per l’integrità fisica, così come per l’equilibrio psicologico, è ormai dimenticato, vinto dalla baldanza di sfidarne la resistenza con la sfrenatezza di sesso, alcool, droghe, pratiche attualmente comuni alla maggioranza degli adolescenti, siano maschi o femmine. Dominano, per tutti, modelli di bellezza artificiale, disinvoltura sessuale, sballo orgoglioso, ricchezza arrogante.
La frenesia di vivere passioni malate non trova alcun argine nelle figure degli adulti, siano genitori, insegnanti, educatori, dei quali non c’è traccia nella quotidianità di questi adolescenti, nella serie come nella realtà. Una deriva educativa della società occidentale: non a caso nella serie i genitori sono presenti, con l’imposizione di divieti ancestrali all’opposto invalidanti, soltanto nella vita di una giovane protagonista di origine araba e religione islamica.
Lo studio, la formazione personale, appaiono solo come un sottofondo fastidioso e d’intralcio alla soddisfazione di sé, ben oltre la goliarda, nella logica di un vivere di espedienti e mediocrità. Resiste soltanto, ma chissà ancora per quanto, l’istituto della scolarizzazione. Totalmente assenti predisposizioni e passioni individuali, progetti e sguardi sul domani.
Un quadro sconfortante, considerando che gli adolescenti ritratti nella serie hanno la fortuna di appartenere a un’élite, che consente loro di frequentare un liceo, di vivere agiatamente, di non avere altra preoccupazione all’infuori dell’estemporanea soddisfazione di sé.
Unica sicurezza, destabilizzante se assente, è l’essere costantemente connessi al loro mondo tramite i social networks, nella falsa illusione di essere protagonisti perfetti di un mondo ideale, in verità figuranti teleguidati di una dimensione virtuale. Ancor più delle sostanze, forse è questa la più triste delle dipendenze.
La speranza di un senso perduto potrebbe nascondersi nella forza del gruppo, che se in qualche caso innesca derive di “branco”, riesce ancora ad offrire amicizia, sostegno, sentimenti autentici. Che siano da cercare in tale dimensione i fondamenti per una nuova educazione della generazione “Z”?
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Quando si parla di inconscio psicoanalitico e di inconscio cognitivo occorre precisare che non si tratta di due “fedi” in contrasto tra loro, ma di due tipi di processi inconsci studiati maggiormente da autori della tradizione psicoanalitica il primo e da autori di quella cognitiva il secondo. Ormai non vi sono più sostanziali differenze di opinioni sulla natura dell’inconscio, e questo è stato possibile anche grazie ai progressi delle neuroscienze. Si è capito per esempio che non esiste “un inconscio”, ma “molti inconsci”, e sia gli psicoanalisti che i cognitivisti sono ben consapevoli dell’esistenza di questi diversi tipi di inconscio.
La caratteristica principale dell’inconscio psicoanalitico è quella di essere “dinamico”. Questo significa che certi contenuti mentali possono passare dallo stato conscio a quello inconscio e viceversa. Un esempio tipico è quello di un trauma che può essere dimenticato perché troppo doloroso, ma che in certe condizioni favorevoli può tornare alla memoria. La psicoanalisi postula che il prezzo pagato per questa rimozione può essere un sintomo (una inibizione, una depressione, etc., o un sintomo isterico come nelle pazienti di Freud), che può improvvisamente scomparire se si riesce a ricordare quel trauma che era stato rimosso.
Secondo una certa concezione superata e ingenua dell’inconscio psicoanalitico, i ricordi rimossi vengono depositati nell’inconscio come se fosse un serbatoio, un magazzino, da cui poi possono essere recuperati tali e quali. Ma è stato dimostrato che la memoria rielabora continuamente i ricordi e li trasforma alla luce dei desideri e delle esperienze successive. Infatti così come, secondo il concetto di transfert, noi interpretiamo le esperienze presenti alla luce del passato, ugualmente, con un meccanismo uguale e contrario, possiamo distorcere i ricordi delle esperienze passate alla luce di quelle successive: questa sorta di “transfert inverso” fu chiamato da Freud Nachträglichkeit (tradotto bene dai francesi con après-coup), che significa appunto una attribuzione retrospettiva di significato.
Un’altra caratteristica dell’inconscio psicoanalitico è quella di essere, come una volta lo definì Freud, un “calderone ribollente” di impulsi e desideri. Questo aspetto lo rende molto diverso dall’inconscio cognitivo, dove non si parla di desideri che premono per essere gratificati ma si parla, più che di emozioni, di “cognizioni”, di pensieri, di problem solving, e di “processi” più che di “contenuti”.
Va precisato però che negli anni 1930 Heinz Hartmann, fondando la “Psicologia dell’Io”, fece la prima grande correzione nella storia della teoria psicoanalitica: teorizzò che non tutto l’apparato cognitivo origina dal conflitto con quel “calderone ribollente” dell’inconscio come riteneva Freud, ma una sua parte, che lui definì “area autonoma dell’Io libera da conflitti”, è innata. Quindi per certi versi si può dire che la concezione dell’apparato cognitivo secondo Hartmann, che poi è diventata la concezione psicoanalitica classica, si avvicini molto a quella cognitiva.
In che modo il terapeuta cognitivo utilizza l’inconscio a livello clinico? Per il cognitivista l’inconscio è concepito come una serie di rappresentazioni mentali implicite o tacite, cioè non consapevoli, le quali, se disfunzionali, vanno modificate in psicoterapia, cercando di renderle consapevoli perché possono motivare il cambiamento (la terapia cognitiva standard assume, in un modo che potremmo definire coraggioso, che non sono le emozioni a trascinare le cognizioni, che sono le cognizioni a trascinare le emozioni). Il terapeuta cognitivo cerca di far ragionare il paziente mostrandogli quanto le sue credenze possano essere disfunzionali o irrazionali, cioè lo rende consapevole dei suoi “pensieri automatici”.
Per “inconscio cognitivo” però non si intende esattamente questo, perché è simile a quello che in psicoanalisi viene definito “preconscio”: anche lo psicoanalista fa riflettere il paziente sulle sue motivazioni non del tutto consce, e in questo senso si può dire che la psicoanalisi sia “cognitiva” (si pensi anche alla interpretazione, intervento per eccellenza della psicoanalisi: essa è un intervento cognitivo, si trasmette al paziente una informazione).
Si suol dire che il cognitivismo è l’erede del comportamentismo, nel senso che si è passati dal semplice modello stimolo-risposta (S-R) alla concezione di una “mediazione cognitiva” che si infrappone tra S e R, cioè da una concezione meramente “ambientalistica” a un modello più complesso (tra l’altro, questo passaggio ricorda quello che aveva fatto Freud con l’abbandono della teoria del trauma per fondare la psicoanalisi vera e propria). Secondo questo luogo comune, dunque, il cognitivismo sarebbe nato dal comportamentismo per poi arrivare alla terapia cognitiva. In realtà i due padri storici della terapia cognitiva, Aaron Beck e Albert Ellis, provenivano dalla psicoanalisi, e volevano proporre un trattamento più semplice e più breve di quello psicoanalitico. Si potrebbe dire quindi che Beck ed Ellis erano due “psicoanalisti moderni” nel senso che miravano a rendere cosciente il paziente dei pensieri preconsci, originati da esperienze precedenti.
Arrivati a questo punto, non si capisce più allora quale può essere la vera differenza tra inconscio psicoanalitico e inconscio cognitivo, soprattutto se in psicoanalisi aderiamo alla Psicologia dell’Io. In realtà, l’aspetto specifico dell’inconscio cognitivo non è quello implicato nella terapia cognitiva di Beck o Ellis, la cui pratica clinica assomiglia molto a quella certi psicoanalisti contemporanei. Per inconscio cognitivo si intende quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perché è stata rimossa, ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non potrà mai essere ricordata. Non solo, ma non è neppure utile né terapeutico che sia conosciuta, con buona pace di quegli psicoanalisti che volevano perseguire l’ideale di Freud (che derivava dalla sua eredità illuministica) secondo cui “dove c’era l’Es ci sarà l’Io”.
Si può anche dire che l’inconscio propriamente cognitivo sia quella parte di noi “che non si può mai ricordare né dimenticare”, ed è una parte importantissima del nostro funzionamento, indispensabile nella vita quotidiana. Si può anche chiamare “memoria procedurale”, o “elaborazione parallela distribuita” delle informazioni della memoria a lungo termine che regola i movimenti automatici (andare in bicicletta, camminare, ecc.). Noi afferriamo una palla al volo senza essere consci di come facciamo, e se ce lo chiediamo è possibile che non riusciamo più a prenderla così bene (è nota la metafora del millepiedi impazzito, che sa muovere alla perfezione i suoi tanti piedi senza mai inciampare, ma che quando gli viene chiesto come fa risponde che non ci ha mai pensato, e da quel momento non è più capace come prima, attorciglia i suoi mille piedi a ogni tentativo di camminare). Questa memoria è “parallela” perché una caratteristica dei processi inconsci è di non essere “seriali”, cioè non operano uno dopo l’altro ma con infiniti processi che avvengono simultaneamente. La coscienza invece per definizione è seriale, cioè le informazioni passano una dopo l’altra, per così dire in “fila indiana”: questa è una grossa limitazione, nel senso che non possiamo fare consapevolmente due cose nello stesso tempo (ad esempio due discorsi), ma solo una per volta, mentre possiamo conversare con un amico e nello stesso tempo guidare la macchina (poiché la guida, una volta imparata, è automatica, regolata dalla memoria procedurale). Ne consegue che la coscienza opera una selezione tra le tante informazioni presenti nell’inconscio, e questo è il motivo per cui quello che diventa conscio è sempre una parte molto ridotta, limitata, e forse anche distorta, della complessità delle elaborazioni inconsce parallele. Inoltre la coscienza è molto più lenta, funzionando un po’ come un “collo di bottiglia”: occorre più tempo affinché tutta “l’acqua dell’inconscio” esca e divenga conscia.
Va ricordato a questo proposito che quello che esce da questa “bottiglia dell’inconscio” non è mai uguale a quello che vi era contenuto, né si tratta della traduzione dei contenuti che nell’inconscio erano censurati o rappresentati sotto forma di simboli. I due linguaggi, quello dell’inconscio e quello del conscio (che Freud chiamava “processo primario” e “processo secondario”, e che per semplicità potremmo chiamare “non verbale” e “verbale”), non sono facilmente traducibili l’uno nell’altro poiché si tratta di codici cognitivi diversi nella loro natura, nel senso che certe rappresentazioni inconsce non sono esprimibili in parole (si pensi ad esempio alla memoria procedurale che regola il movimento, che non è verbalizzabile). È in questo che l’inconscio cognitivo si differenzia nettamente da quello psicoanalitico, poiché quest’ultimo prevede una traducibilità dei contenuti mentali che erano stati rimossi, per cui può aver senso parlare di un “ritorno del rimosso”. Quello invece che abbiamo definito inconscio cognitivo non è dinamico, ma è semplicemente una modalità di immagazzinamento della memoria a lungo termine, non soggetta a elaborazione verbale.
Ebbene, ci si è resi maggiormente conto è che mentre prima si credeva che questo inconscio procedurale riguardasse essenzialmente l’area del movimento, ora sappiamo che riguarda invece anche i rapporti interpersonali, ad esempio gli stili di attaccamento, che regolano buona parte della nostra vita quotidiana e del funzionamento anche affettivo. Questa maggiore consapevolezza ha messo un po’ in scacco l’ideale psicoanalitico di poter intervenire, soprattutto nei pazienti gravi, col solo strumento della interpretazione. Si pensi alla tecnica psicoanalitica “ortodossa” in cui, per timore della “suggestione”, addirittura si tendeva a deprivare il paziente di ogni componente affettiva, facendo leva sui concetti di anonimità, neutralità, astinenza, schermo opaco, etc., arrivando insomma a quella che Migone ha definito, seguendo la metafora freudiana del chirurgo, “personectomia” dell’analista. Questa tecnica “ortodossa” si rivelò presto poco efficace, e si è riproposta con forza la cura tramite l’esperienza affettiva: si tende sempre più a concepire la psicoanalisi come una tecnica “a tutto campo”, in cui il terapeuta usa la propria persona, e non solo le proprie parole, per indurre il cambiamento nel paziente. La concezione della psicoterapia come in sostanza una “esperienza emozionale correttiva” – usando le parole introdotte da Franz Alexander negli anni 1930-40 – oggi si ripropone con nuovo vigore, anche dopo una maggiore comprensione di quello che abbiamo chiamato inconscio cognitivo.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Occorre innanzitutto chiarire cosa si intende per “ricerca” in psicoterapia, in quanto vi possono essere due modi ben diversi per intendere questo termine.
Il primo significato si riferisce alla normale ricerca che fa il clinico coi suoi pazienti, quando cerca di comprendere i significati dei sintomi, fa ipotesi teoriche, e così via; questo tipo di ricerca è quella che fece Sigmund Freud sui suoi casi clinici, e non dimentichiamoci che egli disse che terapia e ricerca sono inscindibili (il famoso Junktim, il “legame inscindibile” tra terapia e ricerca). Il secondo significato si riferisce invece a una ricerca fatta da pochi gruppi di lavoro nel mondo, con strumentazioni sofisticate e metodologie standardizzate (scale di misurazione, registrazione delle sedute, elaborazione statistica, ecc.), molto spesso condotta da ricercatori indipendenti senza la partecipazione del terapeuta (il quale può “inquinare” i dati), e così via; questa ricerca viene chiamata “empirica”, o anche “sperimentale” (il termine “empirica” in realtà è ambiguo, ma è questo il termine che in inglese, per consuetudine, viene usato nella comunità dei ricercatori sperimentali).
Queste due modalità di ricerca possono essere complementari, in quanto la prima può fornire ipotesi preziose per la seconda, che poi le sottopone a verifica. È il secondo significato (quello di ricerca empirica) quello di cui Migone parla in questo seminario.
Il campo della ricerca in psicoterapia assomiglia più a una azienda agricola se paragonato alla ricerca medico-farmacologica che dispone di ricchi finanziamenti. Infatti, pur essendo più costosa, è costretta a basarsi sugli incerti finanziamenti pubblici e su eroici gruppi di lavoro particolarmente motivati. Eppure, anche dietro la spinta di verificare il rapporto costi/benefici da parte delle agenzie governative, negli ultimi anni sono proliferati molti gruppi di ricerca in tutto il mondo.
Innanzitutto chiariamo i termini outcome research e process research, due settori nei quali è consuetudine dividere il campo della ricerca in psicoterapia. Outcome in inglese significa “risultato”, per cui l’outcome research è la ricerca sul risultato della terapia, in termini di differenze tra lo stato pre e post-terapia misurate con scale di valutazione. La process research invece è la ricerca sul “processo” della terapia, condotta anche indipendentemente dal risultato; esempi di process research sono lo studio del rapporto tra alleanza terapeutica in varie fasi della terapia e altre variabili quali sesso o età di entrambi paziente e terapeuta, numero delle sedute, frequenza settimanale, e così via. Questa dicotomia tra risultato e processo non è poi così netta, dato che si tratta di due facce della stessa medaglia nel senso che gli studi sul processo possono rappresentare misurazioni ad interim del risultato, e che comunque si tratta pur sempre di studiare gli “effetti” di determinati comportamenti. La ricerca sul processo poi ha ben poco valore se non viene mai correlata al risultato, per cui può essere giustificato considerare questi due settori come non separati. In determinati periodi storici è stato comunque prevalente un tipo di ricerca sull’altro: come spiega Migone, la ricerca sul risultato ha caratterizzato una prima fase della storia della ricerca in psicoterapia, mentre poi si è passati alla ricerca sul processo.
Più in particolare, possiamo dire che la storia della ricerca in psicoterapia è stata caratterizzata da tre fasi, l’una successiva all’altra anche se parzialmente in sovrapposizione, che possono essere considerate come diverse epoche dello sviluppo culturale in questo settore.
La prima fase domina negli anni 1950-70 (in realtà questa fase fu preceduta da una preistoria della ricerca, caratterizzata dai tentativi di Karl Abraham a Berlino negli anni 1920, di Edward Glover a Londra negli anni 1930, e dagli importanti studi di Carl Rogers in America negli anni 1940). Nella prima fase l’interesse era soprattutto rivolto al risultato della psicoterapia, e le esigenze maggiormente sentite erano quelle del giustificazionismo scientifico e della legittimazione sociale. Il dibattito era dominato dai tentativi di rispondere alla salutare provocazione di Hans Eysenk che nel 1952 aveva sostenuto come non vi fossero prove dell’efficacia di qualsiasi psicoterapia (il suo bersaglio principale però era la psicoanalisi), e dal problema di differenziare il miglioramento dal mero passaggio del tempo, cioè dalla cosiddetta “remissione spontanea” da una parte, e dall’effetto placebo dall’altra (riguardo al concetto di placebo, va ricordato che in psicoterapia, diversamente dalla ricerca farmacologica, non è facile usare il placebo, in quanto si può dire che il placebo sia in se stesso un agente psicologico, e quindi, in senso lato, una forma di “psicoterapia”, per cui al massimo si possono confrontare tra di loro due tipi diversi di psicoterapia). Presto comunque ci si rese conto, anche tramite ricerche pubblicate nel 1980 in cui fu utilizzata la meta-analisi (una tecnica sofisticata che permette di studiare ricerche molto diverse con un unico calcolo), che la psicoterapia di fatto era efficace, ma anche che diversi approcci erano equivalenti. In altre parole, i progetti di ricerca tipo “corsa di cavalli” (horse race) tra varie psicoterapie non riuscivano a determinare nettamente la superiorità di una tecnica rispetto a un’altra. Con una felice espressione di Lester Luborsky, questo fu chiamato “il verdetto di Dodo” (da Alice nel paese delle meraviglie): “Tutti hanno vinto e ognuno deve ricevere un premio”. Questo “paradosso della equivalenza” era una minaccia alla legittimità scientifica delle varie scuole, con l’effetto che ci si rese sempre più conto che lo studio del risultato non era sufficiente.
Si passò dunque alla seconda fase, quella sul processo, che dominò negli anni 1960-80; essa fu scandita da tre conferenze del National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti dal 1957 al 1966, che sfociarono nel 1968 nella fondazione della Society for Psychotherapy Research (SPR), la associazione che dovrà diventare il principale punto di riferimento per i ricercatori. Qui l’interesse maggiore fu spostato dallo studio del risultato allo studio del processo, nel senso della domanda: “cosa deve succedere nel corso di una terapia per cui ci si può aspettare un risultato positivo?”. In questa fase furono fatti importanti studi: quello della Menninger Foundation di Otto Kernberg, Robert Wallerstein e altri, il Temple Study, lo studio multicentrico dell’NIMH sulla depressione, e così via. Si comprese molto bene come sia illusorio paragonare psicoterapie diverse se non si è sicuri che a ogni psicoterapia chiamata in un certo modo (ad esempio terapia “psicoanalitica”, oppure “cognitiva”) corrisponda la stessa cosa (lo stesso “processo”), per cui in questa fase scoppiò il boom dei cosiddetti “manuali” di psicoterapia. I manuali sono caratterizzati da tre componenti: 1) una selezione rappresentativa dei princìpi di una determinata tecnica; 2) esempi concreti di ogni principio, cosicché non vi siano dubbi su cosa si intende; 3) una serie di scale di valutazione (rating scales) che misurano il grado con cui un campione della terapia (il videoregistrato di alcune sedute scelte a caso) rientra nei princìpi di quella tecnica; queste scale di valutazione sono utilizzabili da chiunque. Come è immaginabile, è quest’ultima caratteristica quella che ha fatto fare un salto di qualità alla metodologia di ricerca, in quanto ha permesso di misurare la concordanza tra un determinato manuale e la tecnica sperimentata. I primi manuali prodotti in ambito psicodinamico sono tre, tutti pubblicati del 1984 e tradotti in italiano: quello di Lester Luborsky per il trattamento “supportivo-espressivo”, quello di Gerald Klerman et al. sulla Psicoterapia Inter-Personale (IPT), e quello di Hans Strupp & Jeffrey Binder per le terapie psicodinamiche brevi.
La terza fase, che inizia negli anni 1970, è quella in cui viviamo oggi. Essa è caratterizzata da un disinteresse sempre maggiore per la ricerca sul risultato e da una intensificazione degli studi sul processo, allo scopo di approfondire i “microprocessi”, cioè capire meglio in cosa consistono quei fenomeni che vengono percepiti come macroprocessi. In questa fase furono compiuti vari studi da Luborsky, che ad esempio dimostrò il potere prognostico della “scala salute-malattia” (Health-Sickness Rating Scale: HSRC) all’inizio della terapia, nel senso che emerse che sono i pazienti “più sani” quelli che ne traggono maggiore vantaggio (con un’altra felice espressione di Luborsky, in psicoterapia “i ricchi diventano più ricchi”); la HSRS, formulata da Luborsky nel 1975, fu poi leggermente modificata e rinominata Global Assessment Scale (GAS) e utilizzata per l’asse V del DSM-III dell’American Psychiatric Association del 1980. Nel complesso, si può dire che in questa terza fase la ricerca in psicoterapia si è consolidata, e una nuova generazione di ricercatori sta avvicendandosi ai pionieri; la SPR ha coagulato un numero sempre maggiore di ricercatori che rompono le barriere delle rispettive scuole per ritrovarsi in interessanti alleanze trasversali; inoltre, anche se con un enorme ritardo (e più che altro costretta dalla crescente crisi della sua immagine sociale), anche la International Psychoanalytic Association (IPA) ha deciso di inaugurare una serie di conferenze annuali con la First IPA Conference on Psychoanalytic Research tenuta a Londra nell’aprile 1991.
Si possono riassumere i risultati ottenuti dalla ricerca in psicoterapia? Non è facile perché è un campo vastissimo, però Migone elenca le principali conquiste della ricerca in psicoterapia così come sono state descritte alcuni anni fa da alcuni autori: gli effetti della psicoterapia superano quelli della remissione spontanea e del “placebo”, che è stato meglio operazionalizzato; i risultati dipendono più dalla persona del terapeuta che dalla tecnica usata; esiste una relativa equivalenza tra terapie; terapie specifiche sono più efficaci per alcuni disturbi; psicofarmaci e psicoterapia sono sinergici; è dimostrata l’importanza del rapporto paziente/terapeuta nel modificare la personalità; possono esservi effetti negativi della psicoterapia (un fatto questo paradossalmente molto positivo, infatti Hans Eysenck si era ben guardato dal dire che era dannosa, altrimenti sarebbe stato costretto a dire che era efficace).
Per un trattamento più approfondito sul tema della ricerca in psicoterapia si può consultare il cap. 11 del libro di Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, FrancoAngeli, 1995, 2010 e il libro, sempre di Paolo Migone, La terapia psicodinamica è efficace? Il dibattito e le evidenze empiriche, FrancoAngeli, 2021.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Diversamente da quanto accade in medicina, in psicoterapia esistono moltissimi approcci diversi, a volte addirittura opposti, per affrontare un medesimo disturbo psicologico. Un problema questo che può disorientare l’epistemologo, e che ha fatto dire a molti che la psicoterapia sia ancora in uno stadio prescientifico.
Come superare tale impasse? Una soluzione potrebbe essere quella di applicare in psicoterapia – come in medicina – il metodo sperimentale per verificare la sua efficacia, mettendo cioè a confronto e valutando empiricamente le diverse tecniche che le diverse scuole psicoterapiche propongono. Tale procedura però si scontra con la grande difficoltà di fare ricerca empirica in psicoterapia, non potendo applicare appieno in questo campo la metodologia sperimentale basata su quello che viene chiamato il gold standard della ricerca scientifica, cioè gli “studi randomizzati controllati” (randomized controlled trials [RCT]). Questa metodologia di ricerca, che ad esempio è utilizzata nello studio dell’efficacia dei farmaci, come è noto si basa sul doppio cieco (double blind) e sull’utilizzo del placebo, che non sono del tutto praticabili nella ricerca sulla efficacia della psicoterapia per ovvi motivi: il doppio cieco non è attuabile perché né il terapeuta né il paziente possono essere tenuti all’oscuro di quello che fanno, e non è facile costruire una situazione di effettivo placebo in psicoterapia essendo il placebo esso stesso un tipo di relazione con forti valenze terapeutiche; è ben noto, ad esempio, che certe ricerche abbiano dimostrato – in modo divertente, ma anche inquietante – come i pazienti trattati col cosiddetto placebo (ad esempio messi in lista di attesa oppure seguiti con colloqui informali tenuti da un infermiere con sedute di durata uguale a quelle psicoterapeutiche) migliorassero di più di quelli trattati con una psicoterapia.
Ma perché esistono e riescono a sopravvivere tante scuole diverse? Migone elenca alcuni dei motivi per cui esistono tante scuole psicoterapeutiche, e sottolinea che non è possibile comprendere questo problema se non lo si guarda da una prospettiva storica. Ad esempio, alcune scuole sono sorte come reazione ad altre: notando una debolezza in un certo approccio, certe scuole hanno tentato di colmarlo costruendone uno alternativo, ed occorre vedere in che periodo storico questo è avvenuto per capire se poi l’approccio originario nel contempo si è evoluto correggendo quella debolezza e quindi rendendo inutile la scuola alternativa che si era formata. Oppure, dall’esigenza di trattare pazienti con una diagnosi specifica o di una determinata fascia di età può nascere una nuova tecnica che successivamente viene applicata ad altre diagnosi diventando, gradualmente e quasi di soppiatto, un nuovo modello che può arrivare a essere applicato all’intero campo della psicopatologia. Un altro problema è che spesso alcuni nuovi approcci non soppiantano i precedenti, in quanto in psicoterapia i differenti approcci possono coesistere: questo a volte è dovuto al fatto che certe scuole continuano a sopravvivere per semplice ignoranza degli altri approcci, o per motivi di tradizione storica, di fedeltà ai “padri fondatori”, quindi per motivi affettivi. In sostanza, potremmo dire, certe scuole esistono per una sicurezza di identità, infatti l’appartenenza una scuola è una fonte di rassicurazione, soprattutto in un mestiere così difficile che per sua natura mette in crisi, dovendosi confrontare con le crisi e la sofferenza dei pazienti.
Vi sono poi scuole che usano terminologie diverse ma dietro alle quali vi sono gli stessi concetti, e – per i motivi detti prima, cioè per la insicurezza di identità – vi è una resistenza a prendere atto che, al di là dei termini usati, spesso certe operazioni cliniche della propria scuola sono identiche a quelle di scuole nominalmente diverse. Tanti terapeuti insomma hanno bisogno di illudersi che le cose siano più semplici di quelle che sono, e ignorano il fatto che in tante scuole vi sono state ibridazioni reciproche.
Esiste un movimento per l’integrazione in psicoterapia, che mira cioè a individuare teorie che possano rendere conto, in un modo anche più sobrio, di certi fenomeni clinici che sono spiegati con teorie diverse dalle varie scuole. Vi è insomma da sempre una ricerca di quella che potremmo chiamare una “teoria generale della psicoterapia”. Vi è ad esempio una importante associazione internazionale, la Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI), di cui esiste anche un gruppo italiano che Migone anni fa ha contribuito a fondare, che lavora in questo senso (sono stati fatti vari congressi anche in Italia). La SEPI però non mira all’eclettismo (cioè alla commistione di operazioni cliniche tratte da scuole diverse), ma all’integrazione teorica dei diversi approcci e modelli (un esempio tra i tanti è la proposta – fatta da uno psicoanalista che è anche uno dei fondatori della SEPI, Paul Wachtel, che l’ha pubblicata sulle pagine di Psicoterapia e Scienze Umane, la rivista diretta da Migone – di spiegare il concetto freudiano di transfert utilizzando la teoria degli “schemi correggibili” di Piaget, cioè come “assimilazione”). La questione dell’integrazione comunque è complessa, foriera di equivoci, impossibile da affrontare in un solo seminario, tanto che Migone è disponibile a inviare alcuni articoli su questo argomento a coloro che fossero interessati (email <migone@unipr.it>).
Legata al tema dell’integrazione è anche l’importanza di conoscere modelli diversi, perché il paziente potrebbe sentirsi compreso meglio da un approccio piuttosto che da un altro. Il terapeuta deve essere in grado di conoscere la specificità dei problemi del paziente affinché quest’ultimo si senta capito; in realtà però non si tratta di conoscere, bensì di riconoscere. Infatti, in termini di teoria della conoscenza, si potrebbe dire che noi possiamo conoscere solo qualcosa che conosciamo già, di cui abbiamo fatto esperienza, altrimenti semplicemente non la vediamo (viene in mente che già quasi un secolo fa il famoso medico Augusto Murri affermò che «in clinica non si tratta di conoscere, ma di riconoscere», cioè per diagnosticare una malattia il medico deve averla già vista). Ciò ha implicazioni per la psicoterapia, perché lo psicoterapeuta non solo dovrebbe conoscere i vari disturbi di cui soffre il paziente (tramite lo studio, l’osservazione di altri pazienti, ecc.), ma idealmente avrebbe dovuto farne esperienza personalmente, perché è solo in questo modo che riesce a comprendere il paziente, e quest’ultimo si sente davvero compreso (volendo qui potremmo ricorrere alle neuroscienze, e precisamente alla scoperta dei neuroni specchio, dove molti studi sperimentali hanno dimostrato come essi si attivano solo se il soggetto conosce già quel tipo di comportamento o di emozione che osserva nell’altro, e questo ha implicazioni per quanto riguarda il fenomeno dell’empatia). Non a caso è ben noto come alcuni dei più grandi psicoterapeuti, certi pionieri che hanno dato importanti contributi su determinati problemi clinici, avessero personalmente sofferto di quei problemi (collegato a ciò, vi è il problema della motivazione a essere psicoterapeuti, nel senso che, come è ben noto, anche la scelta professionale ha determinanti inconsce, e aiutando un’altra persona noi inconsapevolmente, per identificazione, lavoriamo anche attorno a un nostro problema).
Lo psicoterapeuta quindi dovrebbe essere una persona che non si richiude nella “parrocchia” della propria scuola. Infatti, se la sua cultura dello psicoterapeuta è ridotta a poche cose, a pochi modelli, egli tende a vedere quegli stessi modelli in tutti i suoi pazienti, i quali potrebbero sentirsi ingabbiati in una teoria e non compresi (tanto è stato scritto su questo, si pensi soltanto a quante generazioni di psicoanalisti tendevano a vedere il complesso di Edipo in tutti i loro pazienti, perché era questo che era stato loro insegnato, non riuscendo a vedere altre costellazioni psicodinamiche a volte ben più complesse e importanti).
Occorre quindi che il terapeuta conosca molti modelli psicoterapeutici, ma, a ben vedere, anche che abbia fatto diverse esperienze di vita, anche di sofferenza. Diversi studi empirici hanno dimostrato che i terapeuti più “sani” spesso non sono bravi terapeuti, perché possono non essere motivati o non capire bene i pazienti (si è parlato a questo proposito di “normotici”, o di “normopati”, cioè coloro che sarebbero, con un ossimoro, “ammalati di normalità”).
Il terapeuta quindi dovrebbe essere il più vicino possibile al paziente, e per capirlo meglio dovrebbe “assomigliargli”, ma ovviamente entro certi limiti. Se è molto diverso da lui non avviene quell’“incastro” (patient/therapist match) che, come tante ricerche empiriche hanno dimostrato, è uno degli ingredienti essenziali per la riuscita della terapia.
Concludendo, sebbene possa sembrare prescientifico avere molti punti di vista per uno stesso disturbo, la molteplicità dei modelli è il risultato di un ampio lavoro di ricerca che permette alla psicoterapia di progredire. Migone concorda con le riflessioni del filosofo Evandro Agazzi che riguardo alla pluralità dei modelli ritiene non ci sia un vero conflitto, poiché ogni teoria, grazie ai propri strumenti conoscitivi, costruisce un proprio “oggetto scientifico”, che deriva da una specifica metodologia conoscitiva e che è diverso dalla “cosa” che si osserva. Questo “oggetto scientifico” non corrisponde al paziente reale, che è inconoscibile: come sottolineava anche Sigmund Freud, noi non possiamo mai conoscere la realtà, ma solo una sua rappresentazione che deriva dagli strumenti con cui la osserviamo. Scoprire un nuovo metodo, o un nuovo modello psicoterapeutico, significa dunque avere un punto di vista in più sul paziente.
La proposta che fa Migone è quella di ritenere i diversi modelli psicoterapeutici tutti legittimi, in quanto guardano il paziente da una loro prospettiva, legata anche a una specifica metodologia. E questi modelli vanno mantenuti tra loro paralleli, per garantire una ricerca infinita. Non c’è un solo modo per conoscere le cose, né c’è un metodo per conoscere “la verità”, che è inconoscibile. Occorre lasciar aperto il campo della ricerca in psicoterapia, affinché continuino a sussistere modi diversi di conoscere il paziente. Nel caso contrario si arresterebbe il processo di conoscenza. Certi metodi non sono “migliori” di altri in assoluto, ma più utili per determinati scopi.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Tema vasto quello dei DSM (ovvero le varie edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali prodotte dall’American Psychiatric Association), necessariamente da sintetizzare, evidenziandone il retroterra metodologico e presentandone origine e implicazioni filosofiche. Dei cinque DSM il corso accenna inizialmente al primo e al secondo rispettivamente del 1952 e del 1968 – piccoli manuali privi di criteri diagnostici, quindi di scarsa importanza – focalizzandosi sulla rivoluzione del terzo, il DSM-III del 1980. Un manuale che si è imposto quale strumento di lavoro sia tra i clinici e che tra i ricercatori superando come importanza l’ICD (ovvero l’International Classification of Diseases) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Il DSM-5 continua a seguire le caratteristiche principali imposte negli anni Settanta da Robert Spitzer con il DSM-III, introdotto proprio da Paolo Migone, in anteprima per l’Italia, sulle pagine della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (dove ha presentato anche i successivi DSM e i due PDM, cioè le due prime edizioni del Manuale Diagnostico Psicodinamico). Il DSM-III è stato il primo ad adottare un criterio non teorico ma descrittivo, che consiste non nel cogliere le cause della malattia, ma nel descrivere i sintomi così come li vede il clinico: così facendo Spitzer superava lo scoglio delle diverse teorie che impediva ai clinici di trovare un accordo sul metodo diagnostico. Tra le ragioni del DSM-III e dei successivi manuali vi era infatti il salvataggio della psichiatria dalla crisi dell’attendibilità delle diagnosi. Era noto, infatti, che prima del DSM-III risultava che ad esempio vi fossero maggiori diagnosi di schizofrenia negli Stati Uniti che in Europa, ed è stato possibile dimostrare che questa differenza non era epidemiologica ma diagnostica, cioè dovuta a diversi criteri per fare diagnosi.
Ma quali sono i problemi dell’approccio descrittivo? Il più evidente è che il criterio descrittivo ha paradossalmente allontanato la psichiatria dalla medicina, che segue invece criteri eziopatogenetici, ovvero centrati sul rapporto causa/cura. Migone mette poi in luce alcune dicotomie dei DSM.
La prima dicotomia, politetico/monotetico, è riferita ai criteri diagnostici. Il criterio politetico si basa sull’elenco di alcuni criteri diagnostici, alcuni dei quali devono essere presenti, non importa quali, basta un numero minimo. I criteri hanno infatti lo stesso valore ponderale: perché la diagnosi sia soddisfatta conta il loro numero (ad esempio almeno 5 criteri su 9). Questa “democrazia” dei criteri diagnostici è davvero problematica, perché implica che criteri molto diversi tra loro siano uguali, ignorando il fatto che alcuni possono essere la causa della malattia, altri la sua conseguenza. Il criterio monotetico invece presuppone che alcuni criteri siano più importanti di altri, ad esempio uno di essi deve necessariamente essere sempre presente per fare diagnosi, il che potrebbe avere implicazioni per l’eziologia. Ed è questo il motivo per cui Spitzer ha sposato il criterio politetico e non quello monotetico, allontanando però in questo modo la psichiatria dalla medicina che adotta il criterio monotetico, il quale potenzialmente lega maggiormente i sintomi delle malattie alla loro eziopatogenesi. La sua scelta è dovuta al fatto che spesso in psichiatria non si conosce la causa esatta delle malattie: si possono solo postulare cause a seconda della teoria adottata. Quanto alla debolezza del criterio politetico, non riuscendo a fare diagnosi con validità di costrutto ma solo attendibili, alta risulta la comorbilità (specie nelle diagnosi dei disturbi di personalità), fattore che invalida la diagnosi stessa in quanto se ne producono diverse parallele.
La seconda dicotomia, validità/attendibilità, è collegata alla prima perché una diagnosi descrittiva (e per di più basata su criteri politetici) può innalzare solo l’attendibilità, non la validità. Gli indici di validità e di attendibilità devono essere tenuti in un equilibro che in psichiatria è molto delicato.
La terza dicotomia è categorie/dimensioni. Le diagnosi categoriali presuppongono categorie, cioè malattie ideali che in tale forma nessun paziente possiede. L’approccio dimensionale, dove le dimensioni sono i tratti o le caratteristiche di un paziente, è più complesso ma è il preferito dagli psicologi e dai ricercatori, mentre i medici in genere prediligono quello categoriale perché è più pratico, permettendo ad esempio di scrivere una diagnosi sulla cartella clinica.
Nell’approccio dimensionale non si diagnostica se un tratto c’è o non c’è, ma lo si studia lungo un continuum (ad esempio l’umore, o l’ansia) utilizzando scale di valutazione che vanno da un minimo a un massimo. Il modello dimensionale non fu usato nei DSM-III e DSM-IV perché difficile da gestire: infatti al clinico servono etichette (ovvero diagnosi) per cui la sua preferenza va all’approccio categoriale. Ma si può osservare che l’approccio dimensionale, in una certa misura, è presente anche in quello categoriale in quanto un paziente può soddisfare più o meno criteri, quindi si possono contare, il che potrebbe implicare una maggiore o minore gravità. Le categorie sono più astratte ma attraverso determinate scale possiamo misurare la distanza tra il prototipo, cioè la categoria, e il paziente reale. Riassumendo: il modello categoriale è più facile da usare, sebbene rischi di etichettare i pazienti, mentre quello dimensionale è più complesso nella sua applicazione clinica ma più utile per la ricerca e più aderente alla realtà clinica.
Il DSM-III e il DSM-IV hanno adottato il sistema multiassiale, poi espunto dal DSM-5. Tale sistema prevedeva che un paziente fosse visto attraverso cinque prospettive simultanee, le più importanti delle quali sono l’Asse I, per i disturbi clinici, e l’Asse II, per i disturbi di personalità. In un certo senso, si potrebbe dire che l’Asse I riguardi gli “stati” e l’Asse II i “tratti”, che sono dimensioni stabili: generalmente si formano nell’adolescenza e persistono per tutta la vita anche se possono essere in una certa misura modificati dagli eventi di vita e anche dall’intervento psicoterapeutico. I due assi si condizionano reciprocamente. Il sistema multiassiale è stato eliminato dal DSM-5: tale decisione è stata giustificata in base all’assenza di Assi nell’ICD, ovvero l’International Classification of Diseases dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli Assi consentivano di comprendere meglio il quadro clinico, perché ad esempio nell’Asse III venivano elencati di disturbi medici, nell’Asse IV i fattori psicosociali stressanti e nell’Asse V il funzionamento psicosociale, per cui in un certo qual modo si poteva tentare di comprendere il paziente da un punto di vista psicodinamico, o almeno da più punti di vista, anche psicosociali.
Vi era l’aspettativa che il DSM-5 riuscisse a superare la crisi dei DSM. Il tentativo di Spitzer di raggiungere non solo l’attendibilità ma anche la validità è fallito, e la comorbilità si è rivelata il tallone di Achille dei DSM. Per risolvere tale impasse il DSM-5 ha introdotto maggiormente l’approccio dimensionale come uno dei modi di parare le critiche sempre più frequenti al modello categoriale, introducendo ad esempio la necessità che in determinate diagnosi alcuni criteri diagnostici fossero sempre presenti.
Nella sezione sui disturbi di personalità, che costituiva una delle parti più deboli dei DSM-III e DSM-IV, nel DSM-5 si è formulato un nuovo modello dimensionale, basato su una accuratissima ricerca. Ma alla votazione dei garanti, pochi giorni prima della pubblicazione del manuale, tale sistema venne escluso perché troppo complesso e faticoso da applicare, e si temeva che tale complessità potesse incidere sulle vendite del manuale. Non si poté fare altro allora che reintrodurre nel DSM-5 tutte le precedenti diagnosi di personalità del DSM-IV, con i relativi problemi di validità; si aggiunse solo una diagnosi, un disturbo di personalità dovuto a un fattore organico, ad esempio a un tumore cerebrale.
Altre novità del DSM-5 sono l’introduzione del concetto dimensionale di “spettro” applicato a vari disturbi, per esempio all’autismo, e l’abbassamento delle soglie per formulare la diagnosi. Come molti autori critici hanno fatto notare, questo abbassamento delle soglie implica un aumento di diagnosi con un conseguente maggiore uso di farmaci nella popolazione, a vantaggio delle case farmaceutiche. Si è anche formato un movimento internazionale di boicottaggio del DSM-5, al quale hanno partecipato anche i capi delle task force dei due precedenti DSM. Il movimento in certe sue frange estremiste si è poi trasformato in una campagna contro la diagnosi in quanto tale, e quindi ha perso la sua efficacia nell’incidere sulle scelte del DSM-5; a quel punto Allen Frances, capo della task force del DSM-IV, comprensibilmente decise di ritirare la sua adesione a questo movimento.
Nella conclusione del corso si accenna al “modello alternativo” dei disturbi di personalità, scartato dal manuale ma comunque pubblicato in una sezione a parte; è basato su cinque dimensioni, che fanno capo a due dimensioni sovraordinate che si riferiscono – per riprendere gli studi di Sid Blatt che hanno avuto una certa influenza sulla costruzione di questo modello – ai concetti di “autonomia” (definizione del Sé) e di “dipendenza” (relazione con le altre persone). A questo proposito si accenna a questa polarità fondamentale della personalità, che presenta aspetti interessanti anche dal punto di vista psicodinamico.
Per un trattamento più approfondito sui DSM si può consultare il cap. 12 del libro di Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, FrancoAngeli, 1995, 2010, e il suo articolo “Presentazione del DSM-5” nel n. 4/2013 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Il webinar affronta un tema molto importante e dibattuto, che da decenni interessa terapeuti, teorici e istituzioni. Il dottor Paolo Migone ne ripercorre gli aspetti descrittivi, psicodinamici e terapeutici, in un excursus storico che arriva fino alle ricerche più recenti.
La lezione prende le mosse dalla nascita della parola “borderline”, originariamente aggettivo, diventata nel tempo sostantivo secondo alcune classificazioni diagnostiche, per poi tornare aggettivo secondo altre. Se alla metà del Novecento il disturbo, associato alla schizofrenia (e per questo si parlava di borderline schizophrenia, in cui borderline era un aggettivo che significava “al bordo della schizofrenia”), collocava questi pazienti gravi in una terra di mezzo tra nevrosi e psicosi ma vicini alla psicosi, la valutazione cambiò radicalmente con Robert Spitzer. Lo psichiatra americano, a capo della task force incaricata di redigere il DSM-III del 1980, elencò una serie di criteri diagnostici dai quali emergeva un nuovo significato del termine “borderline”. Il paziente che ne è affetto verrà inizialmente definito come caratterizzato da una unstable personality (personalità instabile) e descritto non più come vicino alla schizofrenia bensì come impulsivo, arrabbiato, a volte molto depresso. Quindi con la nuova diagnosi potremmo dire che il paziente borderline non si colloca più vicino alla schizofrenia ma all’altra delle due psicosi maggiori, la psicosi maniaco-depressiva, oggi chiamata “disturbo bipolare”. Questa tendenza a dare priorità ai disturbi dell’umore peraltro caratterizzerà tutta l’impostazione del DSM-III.
La storia del disturbo borderline nel susseguirsi dei vari DSM è ripercorsa da Migone soffermandosi in particolare sul DSM-5, la cui sezione sui disturbi di personalità venne totalmente rinnovata su basi dimensionali e non più categoriali, ma che la stessa American Psychiatric Association decise all’ultimo momento di abbandonare giudicandola troppo complessa per il clinico (il timore era che non venisse utilizzata, o che il manuale non si diffondesse a sufficienza, con danni economici dato che le spese sostenute erano state ingenti). Il nuovo modello dimensionale per i disturbi di personalità del DSM-5 non fu incluso ufficialmente nel manuale ma fu comunque pubblicato in una sezione a parte, per cui nel manuale non si poté fare altro che ripubblicare tali e quali i disturbi di personalità così come erano nel DSM-IV, con i relativi problemi di bassa validità e conseguente alta comorbilità (quest’ultima, come è noto, è vero tallone d’Achille dei DSM, soprattutto nei disturbi di personalità). L’unica differenza è che, essendo stati eliminati nel DSM-5 gli Assi, i disturbi di personalità non sono più nell’Asse II ma sono elencati assieme a tutti gli altri disturbi mentali.
Migone elenca i nove criteri diagnostici del disturbo borderline del DSM-IV (e quindi del DSM-5), sottolineandone gli aspetti problematici per quanto riguarda la validità di costrutto, tanto è vero che fu presa in considerazione anche la possibilità di eliminarlo dal manuale.
Vengono poi passate brevemente in rassegna le numerose definizioni del disturbo borderline date già a partire dai primi decenni del Novecento, per mostrare quanti ricercatori, anche e soprattutto di area psicoanalitica, lavorarono attorno a questo quadro clinico. Un autore che dagli anni 1960-70 ha dato contributi importanti è Otto Kernberg, che ha parlato non più di “disturbo” ma di “organizzazione” borderline, definita da tre criteri diagnostici non descrittivi (come è nei DSM) ma intrapsichici. La organizzazione borderline sottende a diversi “disturbi” di personalità, e si colloca nel continuum della terra di mezzo tra nevrosi e psicosi. Anche John Gunderson, un altro psichiatra e psicoanalista americano, darà, assieme a Kernberg, contributi molto importanti per la costruzione dei criteri diagnostici che Spitzer utilizzerà per il DSM-III.
Otto Kernberg, che è uno dei più noti psicoanalisti, racconta la sua frustrazione nel suo iniziale tentativo di lavorare sui borderline utilizzando la teoria psicoanalitica tradizionale, a partire dalla constatazione che i pazienti presentavano manifestazioni opposte che egli non riusciva a interpretare dato che entrambe erano consce: questi pazienti erano privi di una struttura psichica stabile, per cui era inutile tentare di interpretare un materiale inconscio, non essendovi la barriera della rimozione. La difesa della rimozione era sostituita dalla scissione (splitting), un meccanismo di difesa che secondo Kernberg può considerarsi il vero marker della struttura borderline (in modo figurato, potremmo dire che la rimozione implica una divisione orizzontale della psiche, con la parte sottostante che è inconscia e quella soprastante che è conscia, mentre la scissione implica una divisione verticale, che frammenta le rappresentazioni mentali). Era come se – osservò Kernberg, e con lui James Grotstein e altri – dopo il primo paradigma della psicoanalisi, ovvero l’isteria, se ne fosse imposto un nuovo, il disturbo borderline. Nel paziente borderline non si trova infatti un’identità integrata, bensì il vuoto nel rappresentarsi, senza immagini del Sé e degli altri coerenti e stabili. Ecco dunque, secondo Kernberg, il compito del terapeuta: invece di interpretare, dovrà aiutare il paziente a integrare tali immagini scisse tramite soprattutto la tecnica del confronto (confrontation).
Kernberg formulerà poi un manuale di tecnica per i pazienti borderline chiamato Transference-Focused Psychotherapy (TFP), “terapia focalizzata sul transfert”, mirata a confrontare il paziente con le proprie dinamiche psichiche alternanti e contraddittorie. Molto importante nella sua tecnica è il cosiddetto “contratto”, stipulato tra terapeuta e paziente prima dell’inizio della terapia, di cui Migone porta alcuni esempi riguardo alle regole da rispettare per evitare agiti (acting out) impulsivi fuori controllo. Un aspetto strategico dai risultati concreti.
Il Mentalization-Based Treatment (MBT), formulato da Peter Fonagy insieme ad Anthony Bateman, è un’altra tecnica oggi molto usata, curiosamente opposta a quella di Kernberg pur essendo entrambe di derivazione psicoanalitica. Per lo psicoanalista inglese Fonagy, data la struttura psichica del borderline molto danneggiata, incapace di mentalizzare (ovvero di saper rappresentare stati mentali propri e altrui), non serve un lavoro interpretativo e introspettivo (il riferimento implicito è a Kernberg), bensì un approccio “mentalizzante”, empatico, che aiuti il paziente a costruire il proprio mondo interiore. Il terapeuta deve cioè rappresentarglielo, affinché il borderline impari a riconoscere i propri stati mentali e a “costruire” la propria mente. Per questo motivo – spiega Migone – in un certo senso si può dire che i borderline, non avendo una mente, nel rapporto con gli altri spesso non possano fare altro che usare il corpo, ad esempio ricorrendo alla violenza.
Un’altra tecnica molto diffusa è la Dialectical Behavior Therapy (DBT) formulata da Marsha Linehan, psicologa statunitense di orientamento cognitivo-comportamentale. Si tratta di un pacchetto di interventi di vario tipo, molto diversificati, a due sedute settimanali (una individuale e una di gruppo). Interessante, a differenza di Kernberg che preferisce non essere “disturbato” dalle telefonate dei pazienti, la disponibilità della Linehan a essere sempre reperita nel caso il paziente si senta tentato da agiti impulsivi o suicidari; nelle telefonate con i pazienti la terapeuta suggerisce comportamenti alternativi altrettanto fisici, capaci di distogliere il paziente dal proprio impulso. Fondamentale per la formulazione della propria tecnica è stata per la Linehan la propria storia di donna, dalla formazione femminista e soprattutto di giovane dal passato borderline, che l’ha condotta ad aiutare gli altri grazie alla propria esperienza. La stessa Linehan alcuni anni fa ha fatto outing sul suo passato, raccontando dei suoi ricoveri e mostrando pubblicamente le braccia ancora segnate dai tagli che si procurava quando il dolore fisico la distoglieva da quello psicologico.
Nella sua tecnica “dialettica”, la Linehan concettualizza che i pazienti oscillino tra due eccessi dicotomici (bianco o nero, idealizzazione e svalutazione, ecc.), sono cioè incapaci di integrare i poli estremi dell’esperienza della realtà, per cui va loro insegnato a stare in equilibrio, a vedere la realtà sempre in modo dialettico, nel senso che i due estremi sono esagerazioni di una stessa realtà che va vista in modo più realistico ed equilibrato. Curiosamente – osserva Migone – questa operazione a livello clinico è quasi identica a quella che fa Kernberg quando cerca di integrare le immagini scisse nei suoi pazienti borderline (e non va dimenticato a questo proposito che, come ricorda spesso la stessa Linehan, è stato Kernberg a farla conoscere alla comunità psicoterapeutica, avendo subito capito quanto fosse brava e intuitiva nell’aiutare i pazienti borderline).
Per chi volesse approfondire i temi trattati nel webinar, si suggerisce di leggere il volume di Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, FrancoAngeli, 1995, 2010.
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Vittorio Lingiardi Psichiatra e psicoanalista, Professore ordinario di Psicologia dinamica alla Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
La competenza diagnostica è un elemento cruciale della formazione e dell’identità di ogni clinico, psicologo/a o psichiatra. Per insegnare e apprendere questa competenza non basta la conoscenza, pur indispensabile, dei manuali diagnostici. Occorre una riflessione scientifica e culturale sul concetto di diagnosi, termine che, in ambito psicologico-psicodinamico, troppo spesso genera ancora reazioni di disinteresse, insoddisfazione, diffidenza, ostilità. Per alcuni, la diagnosi è solo un’etichetta al servizio di necessità burocratiche e amministrative; per altri è sinonimo di classificazione normativa e oggettivazione autoritaria; per altri ancora è un riparo nosografico per difendersi dall’enigma del dolore psichico e della patologia mentale. Ci auspichiamo che per la maggior parte dei professionisti della salute, psichica e somatica, la diagnosi coincida con il processo conoscitivo e relazionale che precede e finalizza ogni possibilità di cura. Alla fine degli anni sessanta, Franco Basaglia definiva la diagnosi psichiatrica una terminologia tecnica utile allo “smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è, dove la norma non è un concetto elastico e discutibile, ma qualcosa di fisso e di strettamente legato ai valori del medico e della società di cui è il rappresentante”. È ancora valida questa definizione?
La lezione prenderà le mosse da una riflessione sull’importanza delle fonti (non solo testi scritti, anche narrazioni cinematografiche) nella formazione culturale del clinico, purtroppo oggi spesso affidata a programmi tesi a soddisfare soltanto l’agilità e la rapidità dell’apprendimento. In seguito verrà sviluppato il tema della diagnosi dal punto di vista delle sue diverse funzioni, prima di tutto il rapporto di continuità con le indicazioni terapeutiche. Particolare attenzione verrà rivolta al concetto di diagnosi della personalità e dei suoi disturbi. Accanto alle diagnosi più direttamente legate alle manifestazioni sintomatologiche, infatti, ne troviamo altre che riguardano lo stile delle relazioni e il carattere, che può essere diagnosticato come narcisistico, isterico, paranoide, ossessivo, e così via.
In un passo della Psicopatologia generale, Karl Jaspers annota che «tutti i sistemi diagnostici devono rappresentare un tormento». Una frase che può insegnarci molto, spingendoci a considerare tale tormento come una forma di “tensione diagnostica” tra la necessità di ricondurre il paziente a una categoria generale e, nello stesso tempo, alla sua unicità di individuo. Quando diciamo che qualcuno ha una personalità “ossessiva” o “narcisistica”, oppure che ha un disturbo del comportamento alimentare (tanto per citare diagnosi note), parliamo di lui o di lei come appartenente a una comunità “ideale” di sintomi e strutture, una gestalt diagnostica indispensabile ma mai del tutto sovrapponibile alla persona che ho di fronte. Questo è il motivo per cui, nell’attività clinica, nell’insegnamento e nella supervisione, dobbiamo sviluppare una visione diagnostica binoculare, capace di includere il generale e il particolare, l’etichetta e la formulazione del caso. È l’unico modo per non far naufragare il processo diagnostico tra la Scilla dell’astrazione compilativa e la Cariddi dell’idiosincrasia modellistica e spesso gergale. Entrambe mortificano l’identità professionale del clinico e talora distorcono la sua capacità di rilevare le caratteristiche e il funzionamento mentale del paziente, mettendo così a repentaglio la relazione clinica.
Responsabile della formazione di psicologi clinici e futuri psicoterapeuti, non posso ignorare come molti giovani colleghi si trovino spaesati e forzati a dover “scegliere” tra l’assimilazione di procedure diagnostiche standardizzate e il ricorso a linguaggi clinici nebulosi, per non dire inaffidabili. Per questa ragione mi sono sempre speso per la promozione e lo sviluppo nel contesto italiano di sistemi diagnostici “sensati e sensibili”: la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP-200), rivolta alla valutazione della personalità, e il Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM-2), che propone una diagnostica rigorosamente definita in base all’età (Prima infanzia, Infanzia, Adolescenti, Adulti, Anziani). La mia scommessa è quella di riportare nell’atto del diagnosticare non solo l’interesse, ma anche la passione e la sfida. Questo non significa naturalmente ignorare i ben più rinomati manuali di classificazione diagnostica symptom-behavior oriented, quali l’International Classification of Diseases (ICD) e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM). Piuttosto, si tratta di valorizzare ragionamenti diagnostici capaci di ricondurre il sintomo al contesto della personalità e del funzionamento mentale, in vista della promozione di un trattamento a misura di paziente.
Un ottimo punto di partenza è lo statement che l’American Psychoanalytic Association pubblicò sul suo sito in occasione della pubblicazione del DSM-5: «C’è posto, nel campo della salute mentale, per classificare i pazienti in base alle descrizioni dei sintomi, del decorso della loro patologia, e di altri elementi obiettivi. Sappiamo tuttavia che ogni paziente è unico. Due individui con lo stesso disturbo, sia esso depressione, lutto complicato, ansia o ogni altro tipo di patologia mentale, non avranno mai le stesse potenzialità, necessità di trattamento o risposte agli interventi terapeutici. Che si attribuisca o meno valore alle nomenclature diagnostiche descrittive come il DSM-5, l’assessment diagnostico psicodinamico è un percorso di valutazione complementare e necessario, che si propone di fornire una comprensione profonda della complessità e unicità di ciascun individuo, e dovrebbe far parte dell’assessment diagnostico di ogni paziente, perché questo sia accurato e completo. (…) Consigliamo il PDM a tutti i professionisti della salute mentale interessati a tracciare un quadro diagnostico che descriva sia gli aspetti evidenti sia quelli profondi dei pattern sintomatici, della personalità e del funzionamento emotivo e sociale, di un individuo» (apsa.org, ottobre 2013, cit. in Lingiardi, McWilliams, 2017)».
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Massimiliano Spano Psicologo-psicoterapeuta, presidente di Jonas Torino e responsabile clinico del Servizio di Educativa Territoriale per pazienti alcol e tossico-dipendenti, Val d’Aosta
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Negli ultimi anni si è assistito a un incremento delle terapie da remoto condotte, soprattutto, tramite l’uso delle nuove tecnologie Internet. L’aumento della mobilità e delle possibilità di comunicazione istantanea ha, di fatto, prodotto una trasformazione sociale e individuale, del concetto di relazione e del concetto di tempo e di spazio.
Per il filosofo Luciano Floridi viviamo in un’infosfera nella quale oltre il corpo, anche il tempo vissuto ha un nuovo paradigma. Ciò che percepiamo essere una linea di demarcazione netta fra online e offline è, ormai, un modo obsoleto per concepire il tempo e il luogo (fisico e psichico) in cui il soggetto agisce. Lo sviluppo delle tecnologie e dei nuovi media influenza radicalmente la condizione umana modificando la relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo che ci circonda. Il tempo che viviamo è il tempo dell’onlife, che unisce due piani, quello della realtà quotidiana delle cose in cui ci troviamo immersi (life) e il dominio digitale (online). Così noi siamo a metà strada tra offline e online, tra le cose “reali” e un piano virtuale, digitale, non certo meno “reale”.
Sherry Turckle, fra le prime psicologhe a occuparsi della relazione tra tecnologia e il Sé e dell’influenza dei nuovi media sull’essere umano, si spinge ancora oltre e sostiene che la tecnologia si propone come architetto della nostra intimità.
È a partire da queste considerazioni che l’uso delle nuove tecnologie nella psicoterapia richiede attente valutazioni.
In tema di trasformazioni sociali è necessario chiedersi come possiamo continuare una terapia con pazienti che si sono trasferiti per lavoro in un’altra città o in un altro Stato; oppure come possiamo rispettare il diritto dei nostri pazienti alla continuità delle cure quando sono costretti a casa da una lunga malattia o per condizioni di sicurezza sociale (come la corrente pandemia). Dal punto di vista del rapporto paziente-terapeuta bisogna domandarsi se è possibile per un paziente avere un’esperienza significativa di relazione quando la terapia è svolta da remoto, o che cosa succede quando riduciamo le nostre relazioni terapeutiche alle due dimensioni di uno schermo piatto.
Paolo Migone, già diversi anni fa, ha firmato un’accurata riflessione sul tema delle terapie online, fornendo un esauriente approfondimento a partire dalle questioni relative al setting, così come delineate nei due noti lavori di Freud del 1913 e del 1914 (numero delle sedute, luogo, uso del lettino, etc.). Migone, provocatoriamente, sostiene che la psicoterapia con Internet non avrebbe alcuna particolare peculiarità “più di quanto non ve ne sia per le psicoterapie praticate in setting eterodossi come nuove frontiere che hanno messo alla prova la coerenza intera della cosiddetta tecnica classica nel suo sviluppo storico”.
Le questioni relative al setting, tuttavia, non sono le sole a porre interrogativi importanti. I dispositivi teorici e tecnici della psicoanalisi si scontrano con altre domande quando la terapia è svolta online: quanto può essere efficace un’analisi che non preveda la presenza del corpo nella stanza? Ci può essere una buona sintonizzazione affettiva? Il medium elettronico potrebbe determinare l’instaurarsi di fenomeni transferali e controtransferali che più difficilmente possono essere colti, in quanto nascosti nell’opacità del mezzo tecnologico?
La terapia da remoto su schermo (a maggior ragione via telefono) privilegia l’aspetto uditivo. Non si incontrano corpi, non si incrociano sguardi. Così, l’utilizzo delle nuove tecnologie nella psicoterapia potrebbe confinare il processo psicoanalitico all’analisi di “stati della mente” e non di “stati dell’essere”.
Nel suo recente lavoro Psicoanalisi attraverso lo schermo, la psicoanalista britannica Gillian Isaacs Russel affronta tali tematiche e prende in considerazione limiti e potenzialità delle terapie online, a partire anche dai campi delle neuroscienze, della comunicazione e dell’infant observation. In particolare l’autrice fa notare come alcuni autori si concentrino sul potenziale di incontro emotivo, di sintonizzazione o mancanza di sintonizzazione, che si può riscontrare in qualunque setting psicoanalitico, rendendo questa “concezione astratta e simbolica” dell’incontro fra le menti importabile nelle sedute a distanza e sufficiente per un profondo cambiamento psichico. Su un altro piano la Isaacs Russell sottolinea come oggi si sia più consapevoli che il modo con cui le esperienze primitive vengono comunicate non è il linguaggio verbale. Questo costringe a implicare il terapeuta riguardo alle sue sensazioni corporee, le sue percezioni allucinatorie o psicosomatiche. Quindi la diade paziente-analista, per approfondire il processo psicoanalitico, avrebbe bisogno dell’esperienza tradizionale della presenza fisica e non solo di una presenza simulata dalla tecnologia.
Fatte salve le diverse posizioni in merito alla terapia da remoto, è opinione comune che la psicoanalisi debba confrontarsi con le nuove tecnologie e con le innovazioni che esse producono nel campo terapeutico, aprendo la strada a nuove potenzialità di cura che le possibilità di contatto via Internet potranno dare.
Studio dei testi:
Luciano Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, 2020
Sigmund Freud, Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, Bollati Boringhieri
Paolo Migone, La psicoterapia con internet, Psicoterapia e Scienze Umane, XXXVII, 4: 57-73, 2003
Gillian Isaacs Russell, Psicoanalisi attraverso lo schermo, Astrolabio-Ubaldini Editore, 2017
Scrivi Fondazione Hapax ETS – Codice fiscale 97868180015 nella tua dichiarazione dei redditi.
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Elena Camerone
Chiunque di noi, in particolari circostanze, può infierire contro un altro essere umano. Una serie di esperimenti di psicologia sociale, nonché la fiction letteraria e cinematografica basata su fatti realmente accaduti, stanno a dimostrarlo. Lo scarto (confortante) tra “buoni” e “cattivi” sfuma sino ad annullarsi e persino la dicotomia tra “bene” e “male” perde il suo valore di categoria morale.
Nel saggio Psicologia del male lo psicologo sociale Piero Bocchiaro cerca di spiegare i motivi per cui la gente comune può arrivare ad agire in modo malvagio. Concezione predominante nella nostra cultura è che le azioni crudeli siano l’esito della personalità deviata o del patrimonio genetico di chi le compie: una logica che indurrebbe a scavare nella psiche di questi individui per comprendere le ragioni di tali condotte. La popolarità di tale convinzione è legata al beneficio assolutorio che ne deriva, sia per la società, in tal modo alleggerita dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per coloro che non hanno mai agito in modo crudele, che possono così continuare a credere di essere diversi dai malvagi. Nel suo libro Bocchiaro mette in discussione proprio questa credenza, avanzando la prospettiva che chiunque, in determinate circostanze, possa infierire contro un altro individuo. Numerosi esperimenti dimostrano infatti che quando noi esseri umani ci troviamo in contesti estremi diventiamo vulnerabili a forze che prendono il sopravvento e ci orientano verso condotte di tenore negativo, inimmaginabili se si considerano le abituali caratteristiche della nostra personalità. In ogni individuo – sostiene l’autore – esiste dunque un potenziale di crudeltà, in qualche caso anche spiccato, pronto ad emergere in determinate occasioni. Tale conclusione è sostenuta da numerose ricerche di psicologia condotte in laboratorio e sul campo negli anni Sessanta che, benché vietate dal decennio successivo in seguito a valutazioni di natura etica, ancora ci aiutano a comprendere la cronaca attuale: pestaggi, stupri di gruppo, reazioni di indifferenza alla violenza o al dolore. Anziché indagare soltanto la personalità dei protagonisti di tali episodi, Bocchiaro si volge dunque prevalentemente all’esterno, indagando i fattori psicosociali che predispongono al male. Posti in parallelo con fatti di cronaca relativamente recenti, i quattro classici esperimenti di Milgram sull’obbedienza all’autorità, di Darley e Latané sulla diffusione della responsabilità insieme ai due studi di Zimbardo sulla deindividuazione e sulla prigione di Stanford, sono raccontati nel libro con un linguaggio narrativo più che scientifico, al dichiarato scopo che quanto accaduto in laboratorio possa essere compreso anche dai non esperti. Ma se è vero che le dinamiche situazionali possono orientare e predisporre al male, per l’autore rimane il fatto che una condotta riprovevole sia stata messa in atto e che condannarla è doveroso. Lontano dunque ogni intento giustificazionista o assolutorio, vale soltanto l’esigenza di comprendere. Sapere che siamo tutti esposti al potere della situazione – chiosa Bocchiaro – dovrebbe renderci più vigili nei confronti delle varie forze psicosociali che nostro malgrado possono investirci, accrescendo di conseguenza lo sforzo per contrastarle.
Dalla sua pubblicazione nel 1981 ha avuto grande eco, fino a diventare un piccolo classico, il romanzo L’onda dello scrittore statunitense Todd Strasser. La finzione letteraria, che ha come fondamento un fatto realmente accaduto in una high school statunitense nel 1969, racconta dell’esperimento condotto nella sua classe da un professore liceale. Per spiegare il fenomeno ai suoi studenti, increduli del consenso oceanico all’ideologia nazista nella Germania di Hitler, Ben Ross costituisce l’onda: un nuovo movimento, guidato da un leader carismatico, egli stesso, dotato di un simbolo accattivante, un’onda appunto, fondato su un motto, “la forza è disciplina, la forza è comunità, la forza è azione”. Se ogni suo membro, come da regolamento interno, agisce per il bene dell’organizzazione sostenendo gli affiliati in difficoltà, nei confronti dei non iscritti si scatenano ben presto condotte repressive e persino violente. Nella finzione come nella realtà, visto che nella scuola californiana dove il fatto realmente avvenne, ancora si ricordano i tre anni di soprusi e terrore prima dello scioglimento dell’organizzazione. Gli esperimenti di psicologia sociale riportati nel suddetto volume di Bocchiaro trovano dunque espressione letteraria nel romanzo di Strasser, ritratto dell’essere umano colto alla svolta di una scelta: anteporre l’ideologia del gruppo alle proprie convinzioni etiche.
Studio dei testi:
Paolo Bocchiaro, Psicologia del male, Laterza, 2009
Todd Strasser, L’onda. La storia non è un gioco, BUR, 2014