Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
È ormai da circa gli anni ‘60 che i sogni hanno perso quel posto centrale che avevano nella pratica clinica dello psicoanalista. Si è notato progressivamente uno spostamento di interesse dall’interpretazione dei sogni all’interpretazione del comportamento nella vita diurna, al materiale cioè più vicino all’Io e alla parte consapevole del paziente: sintomi, atti mancati, fantasie, modalità relazionali, etc.
Questo materiale infatti, grazie anche alla sempre maggiore esperienza e attenzione degli psicoanalisti, è di per sé già molto ricco e interessante per la comprensione del funzionamento conscio e inconscio del paziente, per niente inferiore al materiale rivelato da quella che Freud definì la “via regia” per conoscere l’inconscio, cioè i sogni.
Questo spostamento di enfasi ha cause complesse, che Paolo Migone discute in questo seminario. Quello che è interessante è che nei tempi recenti si è assistito a una rinascita dell’interesse verso i sogni, con produzione di articoli, libri, organizzazione di convegni e così via. Questa riscoperta del sogno da parte della psicoanalisi con tutta probabilità è dovuta da una parte alle nuove acquisizioni delle neuroscienze e dall’altra a un modo diverso di intendere la clinica psicoanalitica, che si discosta abbastanza da quella concepita dal fondatore della psicoanalisi e che a sua volta risente delle posizioni, sempre più diffuse, della Psicologia del Sé. Ad esempio Jim Fosshage, un analista che appartiene all’area della Psicologia del Sé (e conosciuto anche per alcuni libri scritti assieme a Lichtenberg e Lachmann), in vari lavori descrive in termini molto chiari un modo di comprendere i sogni e di usarli clinicamente che è sempre più prevalente nel movimento psicoanalitico ed è diverso da quello tradizionale.
Freud scrisse L’interpretazione dei sogni nel 1899 e uscì con la data del 1900, allo sbocciare del nuovo secolo. Egli aveva formulato l’ipotesi che, tranne alcune eccezioni, i sogni (così come altri comportamenti) fossero essenzialmente motivati dalla soddisfazione di un desiderio (e, per di più, di un desiderio sessuale o aggressivo) che veniva censurato dal “lavoro onirico” con la produzione di un contenuto “manifesto” che nascondeva un messaggio sottostante, parallelo, il contenuto appunto “latente”. Questa censura aveva uno scopo difensivo, per permettere la gratificazione di certi impulsi senza però disturbare il sognatore: infatti il sogno poteva essere considerato il “guardiano del sonno”. Oggi invece molti analisti rivalutano l’aspetto manifesto dei sogni come immagini che hanno una validità in se stessa, che va rispettata ed eventualmente capita in altro modo. Non si crede più tanto in quella che alcuni hanno chiamato teoria del “doppio binario”, cioè che vi siano due racconti paralleli: quello del sogno manifesto (mascherato, censurato, simbolizzato) e quello del sogno latente (il racconto “vero” che risulta dall’interpretazione o traduzione del primo). Le immagini manifeste del sogno possono invece non esprimere affatto qualcos’altro ma avere valore in se stesse e rappresentare semplicemente un modo di elaborare le informazioni attivo durante il sonno, e anche una specifica modalità di funzionamento cerebrale. Durante il sonno i contenuti mentali vengono continuamente rielaborati e questa è un’attività fisiologica che ha pari dignità, potremmo dire, di quella che avviene durante la veglia. Come hanno dimostrato vari ricercatori sia all’interno che all’esterno della psicoanalisi, non è vero che il “processo primario” (basato prevalentemente su immagini, caratterizzato da assenza del senso del tempo, condensazione, principio di piacere, etc.), di cui il sogno secondo Freud era la tipica espressione, rappresenta una modalità regressiva di funzionamento e che deve trasformarsi nel “processo secondario” (quello razionale, logico, verbale, basato sul principio di realtà, etc.). Il processo primario deve rimanere tale ed è importante per un ottimale equilibrio psicologico e anche per la sopravvivenza. Non solo, ma in determinati aspetti è ancora più importante di quello secondario, e deve funzionare in sinergia con esso. Assolve semplicemente a funzioni diverse. Sarebbe quindi sbagliato “tradurre” le immagini di un sogno in qualche significato latente dotato di un senso preciso: si rischia in questo modo di ridurne la complessità e sminuire le mille altre sue possibili funzioni. Qui sembra che vi sia anche una rivalutazione di idee che ebbe Jung, secondo il quale il sogno non andava “tradotto”, ma rappresentava semplicemente un’altra realtà.
Ma quali sono allora le funzioni del sogno, secondo questi psicoanalisti che oggi ne rilanciano l’interesse? Esse sono essenzialmente funzioni di crescita, problem-solving, mantenimento, regolazione, e, se necessario, riparazione (cioè guarigione) dei processi psichici allo scopo di favorire sempre un migliore adattamento e funzionamento mentale. Questa visione, come si può vedere, riprende la comprensione che vari autori cognitivisti hanno del sogno ed è anche coerente con la Psicologia del Sé secondo la quale il Sé ha un programma innato di sviluppo, volto alla crescita, all’adattamento e alla socializzazione, in armonia – in condizioni ottimali – con il mondo esterno. Diversa era invece la concezione freudiana, che prevedeva un conflitto innato, una sorta di ostilità con la realtà esterna, sulla quale l’Io aveva bisogno di scaricare determinate energie pulsionali.
In questo seminario quindi Paolo Migone accenna a varie problematiche legate all’attuale dibattito sulla concezione del sogno, mostrando la vicinanza di certe concezioni psicoanalitiche attuali alle concezioni cognitiviste e facendo anche alcuni interessanti esempi di sogni (ad esempio la descrizione di certi sogni che si possono definire paradossali, e i modelli teorici con cui possono essere spiegati).
Lectio di Paolo Migone
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
In questo seminario Paolo Migone spiega in dettaglio il concetto psicoanalitico di identificazione proiettiva sulla base della descrizione che ne fece Thomas H. Ogden in un articolo del 1979, poi inserito nel suo libro del 1982 Identificazione proiettiva e tecnica psicoterapeutica (Roma: Astrolabio, 1994).
La discussione di Ogden di questo concetto è una delle più chiare e permette facilmente di comprenderne tutti i risvolti teorici e clinici. Ogden, che risentiva dell’influenza kleiniana e soprattutto bioniana, divide il processo dell’identificazione proiettiva in tre fasi: proiezione, pressione interpersonale, e re-internalizzazione. Ogni fase viene descritta e spiegata facendo riferimento ad esempi clinici e vengono fatti anche collegamenti con termini e concezioni fuori dal campo psicoanalitico, appartenenti alla tradizione (quali il malocchio, la fattura, la possessione, etc.). Non solo: vengono fatte considerazioni anche su altri concetti collegati, peraltro oggi al centro del dibattito psicoanalitico: si accenna ad esempio ai temi del controtransfert, dell’empatia, del rispecchiamento e dell’intersoggettività.
Per quanto riguarda il controtransfert, ad esempio, Migone descrive la concezione “ristretta” di controtransfert che aveva Freud (che lo considerava un ostacolo al lavoro analitico) e quella “allargata” o “totalistica” inaugurata da Paula Heimann e Heinrich Racker dei primi anni ‘50 (che cominciarono a ritenerlo utile per conoscere l’inconscio del paziente), fino ad arrivare al dibattito contemporaneo che vede anche posizioni moderate, come quella di Morris Eagle, che sottolineano i rischi di allontanarsi troppo dalla posizione freudiana (Eagle ha esposto queste sue riflessioni in un importante articolo, dal titolo “Il controtransfert rivisitato“, uscito sul n. 4/2015 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, di cui Migone è condirettore). È importante una discussione del controtransfert perché Migone mostra bene come l’identificazione proiettiva sia praticamente sovrapponibile al controtransfert inteso nella sua concezione allargata. Per quanto riguarda il concetto di empatia, studiato anche prima della psicoanalisi, fu utilizzato da Carl Rogers e poi all’interno della psicoanalisi da Heinz Kohut, con risvolti sia conoscitivi che terapeutici. Connessa all’empatia è la tematica del rispecchiamento, sottolineata, tra gli altri, da Donald Winnicott e nei tempi recenti da vari autori che fanno riferimento alla tematica della mentalizzazione e, all’interno delle neuroscienze, dei neuroni specchio. Infine, vari esponenti della psicoanalisi contemporanea (Bob Stolorow, Jessica Benjamin, Owen Renik e altri) propongono un paradigma “intersoggettivo” che si distanzia nettamente dalla “teoria del conflitto moderna” rappresentata dalla revisione teorica operata da autori “classici” quali Charles Brenner e Jack Arlow ma che, a ben vedere, ha anche importanti somiglianze spesso sottovalutate (queste considerazioni vengono fatte da Chris Christian in un interessante articolo pubblicato sul n. 2/2015 di Psicoterapia e Scienze Umane). Un aspetto importante di questo seminario quindi consiste nel fatto che nella discussione dell’identificazione proiettiva vengono fatti riferimenti anche ad altri concetti psicoanalitici che sono collegati ad essa, chiarendone per quanto possibile le differenze e le somiglianze.
Per chi fosse interessato, una trattazione approfondita di questa tematica è nel capitolo 7 del libro di Paolo Migone Terapia psicoanalitica (FrancoAngeli, 1995, 2010).
Lectio di Paolo Migone
Marco Belpoliti Saggista, scrittore, docente universitario, direttore della rivista e casa editrice www.doppiozero.com
Gabriella Caramore Saggista e conduttrice radiofonica, docente presso Associazione Nuova Accademia
Nicole Janigro Psicologa psicoterapeuta, giornalista e scrittrice
Gianfranco Marrone Professore Ordinario di Filosofia e teoria dei linguaggi presso l’ Università di Palermo; Direttore del Centro
internazionale di Scienze Semiotiche di Urbino
Ugo Morelli Professore di Scienze cognitive applicate alla vivibilità, al paesaggio e all’ambiente presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II
Anna Stefi Psicologa, docente di scuole superiori, vicedirettrice della rivista www.doppiozero.com e redattrice della collana Riga
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Il nuovo ciclo di webinar curato dalla rivista “doppiozero” ha per oggetto i modi del sentire: un mosaico di interpretazioni che a partire da analisi etimologiche e attraverso citazioni letterarie e teorie filosofiche cerca definizioni contemporanee per la gratitudine, l’ansia, la libertà, la noia, la pigrizia, l’ira. Moti dell’animo che accompagnano la condizione odierna. L’impostazione multidisciplinare dei sei interventi si apre su una doppia prospettiva: se è possibile rinvenire anticipazioni del pensiero psicologico in narrazioni e riflessioni non strettamente teoriche, d’altra parte è altrettanto possibile trovare tra le pagine di un romanzo o di un saggio l’impiego di teorie e concetti elaborati dalla psicologia e dalla psicoanalisi.
Anna Stefi riflette sul valore del dono nella sua analisi della gratitudine. Oltre la logica di scambio cui la contemporaneità mercantile ci ha assuefatto, che tende a privare di valore ciò che non chiede compenso, il donare basta a sé, non ha altra ragione che la propria. È un gesto originario a perdere, un’eccedenza che mette in moto un circolo del dono. Una logica della dissipazione nella quale entrambe le parti restano senza aspettativa da un lato né diffidenza dall’altro, un atto di generosità spontanea, che nobilita chi lo fa e chi lo riceve. Se già secondo Seneca il dono educava il mondo alla gratitudine mentre per la religione cristiana resta consustanziale, oggi la cultura dell’eccedenza può essere un’esperienza sacra da vivere da laici.
Per definire l’ansia, sensazione inafferrabile che tutti noi sperimentiamo, Nicole Janigro ne analizza le diverse carature. Certo è che dalla seconda guerra mondiale siamo diventati abitanti del mondo dell’ansia, paesaggio eletto della letteratura e dell’arte del Novecento. Una condizione non normale che tuttavia può servire a raggiungere obiettivi, come ormai si tende a teorizzare, considerata sempre meno patologia quanto piuttosto protagonista perenne della contemporaneità, che permette di affrontare la performance del vivere con le sue continue sollecitudini, fisiche e mentali. Benché dall’ansia quale sensazione di essere vitali sia breve il passaggio che conduce all’angoscia, alla fobia, al panico.
È drammaticamente calata nell’attualità così come nella condizione contemporanea dell’essere umano la dissertazione sulla libertà di Gabriella Caramore, che ne mette in luce il legame con la sfera delle emozioni. Un sentire che può essere collettivo quanto personale, crocevia tra la storia e l’individuo. Alla connotazione sociale dell’anelito alla libertà riconducono le immagini della vicina guerra in Ucraina così come di tutte le guerre in corso. La sfera personale della tensione alla libertà permette di riconoscere a un primo sguardo le persone coraggiose, anche nella quotidianità abitate da un sentimento forse innato. Quale ne sia l’espressione, la libertà è un gesto espansivo, relazionale e “politico”, capace di accendere fuochi e risvegliare coscienze.
È una cartografia del sentimento della noia quella che Marco Belpoliti traccia tra la letteratura e la filosofia del Novecento. Da Heidegger a Moravia, la strana indifferenza che accomuna tutti gli esseri e persino le cose, spesso descritta come una “nebbia” silenziosa che ottunde e in cui ci si smarrisce, ha una stretta relazione col tempo, quello della coscienza e quello della natura, fatalmente contrapposti in uno squilibrio inquietante. L’horror vacui dentro il tempo, sentito come un’eternità vuota, configura la noia quale “tonalità affettiva” in rapporto alla problematicità della nostra esistenza, di cui avvertiamo dolorosamente il nulla quando manca un orizzonte di senso.
Gianfranco Marrone ha voluto connotare il suo intervento sulla pigrizia con un titolo: “La fatica di essere pigri”. All’apparenza un paradosso, che tuttavia, oltre a all’aspetto psicologico, ne evidenzia le implicazioni sociali, soprattutto delle giovani generazioni. La condizione contemporanea, tanto più dopo l’evento pandemico che ha sconvolto la quotidianità dell’Occidente, riconfigura la pigrizia quale passione intersoggettiva: una reazione fino alla ribellione verso coloro che impongono la cultura dell’attivismo quale valore supremo. Ai quali il pigro risponde collettivamente, rifiutandosi di agire e resistendo, adoperandosi dunque tutt’altro che pigramente per attivare la sua inerzia simbolicamente efficace.
Ugo Morelli racconta l’ira quale esperienza tra le più impegnative e insieme consuete della nostra vita e delle relazioni con gli altri. Inscritta nella Bibbia tra i peccati capitali, si accredita ormai quale manifestazione comportamentale sostenuta dalle nostre emozioni di base, che in uno stato di particolare emotività esprime la nostra aggressività verso il mondo o contro gli altri. L’essere “fuori di sé” quale “tensione rinviante” è nostra caratteristica, che si trasforma in ira, fino all’aggressività, se non governata. Dacché per la combinazione di storia individuale e precedenti evolutivi, il libero arbitrio non sempre prevale, come già Freud teorizzò e gli studi neuroscientifici e psicologici dimostrano. Salvo valutare dell’ira anche l’accezione di risorsa.
Anna Stefi racconta la gratitudine – lezione
Nicole Janigro racconta l’ansia – lezione
Gabriella Caramore racconta la libertà – lezione
Marco Belpoliti racconta la noia – lezione
Gianfranco Marrone racconta la pigrizia – lezione
Ugo Morelli racconta l’ira – lezione
Maria Silvana Patti, psicologa, psicoterapeuta, responsabile del Servizio di Psicotraumatologia e del Master in Psicotraumatologia dell’ARP di Milano. Membro del Comitato Scientifico della Casa della Psicologia, Ordine degli Psicologi della Lombardia.
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Completa la trilogia di Synapsis dedicata alla guerra un webinar che analizza negli aspetti pratici l’individuazione del trauma, gli esiti psicopatologici e l’intervento terapeutico cui sottoporre chi ne è vittima.
Tra i numerosissimi conflitti in corso, ad aver risvegliato le coscienze dell’Occidente è la vicina guerra in Ucraina, che affliggerà di effetti psicopatologici dovuti all’esposizione prolungata non solo le vittime dirette, ma tutti coloro che, a varia intensità, la subiscono: la popolazione civile, i soccorritori, gli operatori di ong, i cronisti, fino a noi tutti che nell’infodemia attuale siamo passibili di un trauma vicario.
A premessa storica Maria Silvana Patti ripercorre gli studi legati ai traumi di guerra, fatalmente condizionati dall’evolversi delle tecniche militari fino alla comparsa delle armi di distruzione di massa. Già Senofonte nell’Anabasi riferiva di comportamenti depressivi nelle truppe. Ma i primi studi scientifici sulle reazioni traumatiche dei combattenti datano fine Ottocento, con il concetto di “trauma psichico” formulato dal neuropatologo tedesco Hermann Oppenheim. Inascoltato fino alle prove di nevrosi traumatiche notate nella prima guerra mondiale, quando i sintomi dei soldati venivano piuttosto ricondotti all’isteria e visti con sospetto per il disvelarsi di fragilità personali inconcepibili nella retorica di guerra. Sono invece valide ancor oggi alcune linee di trattamento emerse dal secondo conflitto mondiale, che vide il coinvolgimento massiccio della popolazione con esiti devastanti sui civili. Fino alla guerra del Vietnam, crudamente coperta dai media oltre la censura imposta. Noto è il fenomeno dei reduci gravemente traumatizzati che si affidarono ad “autocure” con uso di sostanze o alcool, ma anche a gruppi di “autoaiuto” poi confluiti in reti terapeutiche organizzate. Finalmente nel 1980 il DSM III riconobbe come categoria diagnostica il “disturbo da stress post traumatico”.
Nella contingenza del conflitto in Ucraina la docente espone le fondamentali linee guida per interventi d’emergenza, analizzando sintomi ed esiti psicopatologici dei traumi di guerra. Con una particolare attenzione al trattamento dei bambini, considerando che i genitori stessi, pure vittime, ammettono difficoltà nell’assicurare sicurezza e protezione ai propri figli.
Un problema attuale e futuro, perché quale società potrebbe reggersi su individui incapaci di investire nel proprio progetto di vita e qualora la trasmissione del trauma diventasse transgenerazionale?
Lectio di Maria Silvana Patti
È possibile seguire la lezione senza il rilascio dei crediti ECM
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
In questo seminario Paolo Migone ripercorre la storia il dibattito psicoanalitico sui fattori curativi e sull’importanza data alla relazione terapeutica, a partire da Freud e dal Congresso di Marienbad del 1936, passando attraverso la svolta del Congresso di Edimburgo del 1961, per arrivare al dibattito recente.
Freud concepiva due fattori curativi fondamentali: la comprensione e l’attaccamento (per la verità ve ne era un terzo, l’integrazione, che qui non viene preso in esame). Per “comprensione” Freud intendeva i fattori cognitivi, cioè l’interpretazione, la comprensione intellettuale, la spiegazione, l’istruzione, l’educazione, l’argomentazione logica, etc., mentre per “attaccamento” (da non intendersi come “teoria dell’attaccamento” di John Bowlby, a quei tempi non ancora formulata) intendeva gli aspetti emotivi, affettivi, relazionali, esperienziali, suggestivi, etc. Migone evidenzia come, contrariamente a quanto in genere si creda, Freud desse molta importanza al ruolo della relazione, da lui ritenuta un potente agente terapeutico, e non solo all’interpretazione, considerata da molti come l’intervento della psicoanalisi par excellence. Migone mostra la concezione che aveva Freud nei dettagli riportando anche sue citazioni, ed evidenzia come in realtà egli concepisse la psicoanalisi come una pratica terapeutica “a tutto campo”, con aspetti umani, educativi, identificatori, etc., all’interno dei quali l’interpretazione del materiale inconscio rappresenta solo una parte del trattamento, e spesso neppure la più importante. La terapia quindi, potremmo dire, è Bildung, cioè è anche la costruzione di un soggetto, che “impara” dal terapeuta, il quale trasmette anche valori e funge da modello per lui, come lo stesso Freud ha più volte osservato (volendo parafrasare Freud quando citava Leonardo da Vinci, la psicoanalisi quindi non funziona solo per via di levare, ma anche per via di porre).
L’autore cui Migone fa riferimento in questa ricostruzione storica del dibattito psicoanalitico sui fattori curativi è Larry Friedman, di New York, uno storico delle idee della psicoanalisi molto attento e colto, che è anche nella redazione della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (di cui Migone è condirettore), il quale ha esposto queste sue riflessioni in un articolo del 1978 incluso poi come capitolo 4 del suo libro del 1988, tradotto anche in italiano, Anatomia della psicoterapia (Torino: Bollati Boringhieri, 1993). Secondo Friedman, negli anni 1950-60 avvenne una svolta, culminata nel dibattito sui fattori curativi avvenuto al congresso dell’International Psychoanalytic Association (IPA) di Edimburgo del 1961, che modificò la concezione della psicoanalisi che aveva Freud, e la rese una tecnica molto rigida, “classica”, in cui l’analista doveva restare il più possibile anonimo, parlare poco, stare dietro al lettino per non farsi vedere dal paziente, e intervenire soprattutto tramite le interpretazioni. Come espresso da Migone, questo atteggiamento analitico rappresenta una sorta di “personectomia” dell’analista, cioè, per così dire, un’asportazione chirurgica della persona dell’analista dalla relazione col paziente. Questa tecnica, che alcuni chiamano freudiana, per la verità non fu mai praticata da Freud, il quale quindi in questo senso non è mai stato un “freudiano”. Ma come mai si arrivò a questo irrigidimento, che come sappiamo ritroviamo un po’ ancora nello stereotipo dello psicoanalista rappresentato a volte nei giornali e in certi film? Il fatto è, argomenta Friedman, che nel 1961 il panorama dello sviluppo delle psicoterapie era ben diverso da quello di 20-30 anni prima: la psicoanalisi non dominava più incontrastata il mercato della psicoterapia e il suo monopolio era stato rotto dall’assedio di un vasto movimento di psicoterapie diverse, molte delle quali non solo efficaci, ma anche più economiche, più brevi, e quindi più appetibili. Probabilmente vari esponenti dell’istituzione psicoanalitica si sentivano minacciati e avevano bisogno di differenziare al massimo la specificità del metodo psicoanalitico, e naturalmente solo l’interpretazione si prestava a servire come “concetto forte” atto a questo scopo. Le componenti identificatorie e affettive, legate alla relazione col terapeuta, rischiavano di rientrare nei cosiddetti fattori “aspecifici” o “comuni” presenti in quasi tutte le psicoterapie, sminuendo l’originalità della psicoanalisi. In questo seminario Migone discute anche altri aspetti collegati a questo problema, come l’identità medica della psicoanalisi americana (è soprattutto negli Stati Uniti che sono avvenuti tali sviluppi), la traduzione delle opere di Freud in inglese di James Strachey che secondo alcuni avrebbe modificato certi significati che aveva voluto dare l’autore (secondo Bruno Bettelheim, ad esempio, la psicoanalisi nell’attraversare l’oceano avrebbe “perso l’anima” e acquisito maggiormente un’identità medica), e così via.
Per chi fosse interessato, una trattazione approfondita di questa tematica è nel capitolo 6 del libro di Paolo Migone Terapia psicoanalitica (FrancoAngeli, 1995, 2010).
Lectio di Paolo Migone
Maurizio Bettini, classicista e scrittore, Direttore del Centro “Antropologia e Mondo antico” dell’Università di Siena
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Non entra nell’attualità del conflitto in Ucraina la lezione di Maurizio Bettini, ma risalendo alle radici semantiche della terminologia di guerra, ne analizza gli aspetti umani, sociali, antropologici.
Se “guerra” è parola di origine germanica (“Wirre”) che ne evoca la turbolenza e si impone nel Medioevo, risalire ai lemmi romani significa riscoprire un’etica del conflitto ormai dimenticata.
Non era con il termine latino “inimicus”, riferito piuttosto a un nemico personale, che i romani identificavano il nemico della res publica, bensì con la parola “hostis”, ovvero un pari, con il quale era lecito fare la guerra.
Sono le storie a ricordarcelo. Bettini ne racconta di emblematiche, tratte dall’epica greca, dalla mitologia romana, anche dalla memorialistica familiare.
L’Iliade, prima opera letteraria della tradizione occidentale, attribuita ad Omero, oltre i versi commoventi e gli episodi mitici è soprattutto una successione di scontri, crudelissimi, tra sangue grondante, ossa spezzate, midolli che biancheggiano. Il maggior valore per l’uomo greco, che
preferiva la bella morte in battaglia a una vita lunga e meschina. L’episodio dell’incontro tra Diomede e Glauco ne rivela lo spirito, ovvero nobilitare se stessi attraverso il riconoscimento del nemico.
Tanto che, per i romani, non tutti i popoli erano degni di essere combattuti: neppure lo meritavano i perduelles, ovvero i predoni, i briganti. Solo il bellum iustum era dichiarato con rigoroso rituale.
Quanto appare mitologica l’antichità! Neppure una dichiarazione di guerra è stata consegnata dalla Russia all’Ucraina.
È ancora una storia antica ad aiutarci a comprendere la contemporaneità: la guerra fratricida tra romani e albani. Uno scontro empio, vietato dagli dei dacché tra consanguinei, che richiedeva sacrifici preliminari. L’esito tragico, determinato dalla nota vicenda degli Orazi e dei Curiazi,
contaminò l’antica Roma di sangue fraterno. Una nebbia di impurità che ora ammorba anche l’Europa, scossa da una guerra tra popoli da sempre fratelli.
Lectio di Maurizio Bettini
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Miguel Benasayag, Filosofo e psicoanalista, fondatore del Collectif Malgré tout
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Sono affidate a Miguel Benasayag, psichiatra e filosofo con un passato nella resistenza durante la dittatura argentina, le riflessioni sulla psicologia e sui traumi di guerra che il conflitto in Ucraina riporta all’attualità. Condiziona tuttora l’attività clinica di Benasayag la sua esperienza di vita, raccontata nel webinar con toccante drammaticità. Imprigionato per quattro anni nelle carceri argentine per prigionieri politici, il giovane studente di medicina era incaricato segretamente dall’organizzazione in cui militava di prendersi cura dei compagni la cui integrità psichica era andata in frantumi dopo le indicibili torture subite dai carcerieri. Un annientamento spesso ancor più irreversibile dei danni fisici patiti, che pure il futuro medico, anch’egli torturato, cercava di lenire. Ponendosi già allora il problema di come curare qualcuno che dalla violenza è stato totalmente destrutturato, cercando quel punto che ancora tiene dal quale provare, lentamente, a ricostruire. Lo stesso interrogativo già posto in Francia dai sopravvissuti agli attentati terroristici e d’ora in poi in tutta Europa dall’arrivo dei profughi ucraini fuggiti dalla guerra.
Ma cosa significa oggi per uno psichiatra, uno psicologo, uno psicoterapeuta occidentale avere di fronte un paziente con traumi di guerra? Benasayag, riprendendo un tema espresso nella precedente lectio in webinar per Synapsis fissa il contesto attuale in cui ridefinire la patologia: un Occidente in profonda crisi in cui la certezza di un mondo governato dalla ragione è ormai venuta meno. Dopo secoli di cartesiano antropocene (ovvero la centralità dell’uomo soggetto nell’universo oggetto) che già aveva iniziato a incrinarsi all’alba del Novecento, dovrà cambiare il nostro modo di abitare il mondo. Così come un clinico dovrà ripensare la relazione col proprio paziente: individuo cui la società contemporanea chiede di funzionare, quasi fosse una macchina, ma che invece più di tutti avverte come la promessa del futuro si sia ormai trasformata in minaccia. Sono in verità sempre di più – osserva Benasayag – a pensare che le pandemie, la catastrofe ecologica, e ora anche la guerra siano quel futuro minaccioso già arrivato. Di questa realtà depressiva, che attanaglia anche i giovani fino ai bambini, il clinico deve prendere atto: non potrà più rassicurare i suoi pazienti, essendovi egli stesso immerso. Del Benasayag clinico è cambiata la prospettiva rispetto a quarant’anni fa, quando permaneva la speranza in un domani di libertà e democrazia fuori dalle mura di quel carcere. Il compito del clinico oggi, che Benasayag teorizza nella sua “terapia situazionale”, sarà dunque accompagnare il paziente nell’abitare un mondo in cui la minaccia è reale, assumendo il presente oscuro senza promettere, ammettendo anche di non sapere. Si tratta di costruire un’etica immanente, che trovi un modo di esistere qui e ora se non esiste più un fuori e un domani, perché, citando Beckett, è questo ormai il nostro tutto.
Lectio di Miguel Benasayag
E’ possibile seguire la lezione senza il rilascio dei crediti ECM.
Paolo Migone Psichiatra e psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è un problema annoso, discusso in infiniti dibattiti nella storia del movimento psicoanalitico e mai concluso in modo unanime. Il motivo di tale difficoltà sta nel fatto che vi sono vari modi di intendere la psicoanalisi, e di conseguenza diverse opinioni sulla sua differenza dalla psicoterapia. E questo vale ancor di più per la psicoterapia, perché vi sono molte forme di psicoterapia, alcune estremamente lontane tra loro.
In questo seminario Paolo Migone chiarisce innanzitutto come per psicoterapia egli intenda qui la psicoterapia psicoanalitica, e non la psicoterapia in generale. Capire bene la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica implica in effetti definire l’identità della psicoanalisi, perché chiarendo cosa essa non è si può arrivare anche a capire cosa essa è. Migone espone alcune sue riflessioni, pubblicate per la prima volta in un articolo nel n. 4/1991 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane e approfondite negli anni successivi, confrontandosi in numerosi dibattiti (ad esempio con Kernberg e Green), arrivando a proporre una definizione allargata di psicoanalisi. Secondo questa definizione è possibile chiarire la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia in un modo chiaro e corrente, senza le contraddizioni che, a parere di Migone, spesso si notano nei tanti – e vani – tentativi fatti da molti autori che hanno cercato di chiarire questa differenza. L’autore di riferimento per Migone in questo dibattito è Merton Gill, che nel 1984 scrisse un articolo sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia in cui rivide criticamente le posizioni che lui stesso aveva espresso in un famoso articolo del 1954, quindi 30 anni prima, per molti tuttora un punto di riferimento. Nel 1954 Gill aveva proposto quattro criteri intrinseci (cioè teorici) per definire la psicoanalisi (e quindi per differenziarla dalla psicoterapia), mentre nel 1984 mantenne uno solo di questi criteri, l’analisi del transfert, dato che modificò gli altri tre criteri alla luce di una sua revisione teorica. Un altro autore che Migone discute in questo seminario è Kurt Eissler, che nel 1953 aveva scritto un articolo fondamentale sui cosiddetti “parametri di tecnica”, permettendo di definire in modo molto coerente cosa è psicoanalisi e cosa è psicoterapia. A parere di Migone, l’analisi teorica di Eissler è tuttora valida ed estremamente importante, pur essendo cambiato il nostro modo di intendere il setting analitico (che per Eissler era quello cosiddetto “classico”). Se noi utilizziamo la cornice teorica della Psicologia dell’Io, che come è noto sottolinea il punto di vista delle difese e dell’adattamento (aspetti che non erano considerati da altre scuole psicoanalitiche, ad esempio da quella kleinina, al cui interno non a caso non è mai esistito un dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia), oggi è possibile vedere la cosiddetta psicoanalisi e la cosiddetta psicoterapia come declinazioni della stessa teoria generale, quindi la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia per così dire si scioglie – a parere di Migone. Infatti, come afferma provocatoriamente in questo seminario «con determinati pazienti l’unico modo per essere veri psicoanalisi è quello di fare gli psicoterapeuti». Per chi fosse interessato, una trattazione approfondita di questa tematica, anche con un dettagliato esempio clinico, è nel capitolo 4 del libro di Paolo Migone Terapia psicoanalitica (FrancoAngeli, 1995, 2010).
Miguel Benasayag Filosofo e psicoanalista, fondatore del Collectif Malgré tout
Elena Camerone Psichiatra e psicoterapeuta
Come abitare oggi il mondo? Per Miguel Benasayag è la questione centrale nell’attività clinica psichiatrica e psicoterapica della sua “psicoterapia dei legami”, detta anche “situazionale”.
Non sembri strano, ai clinici che si occupano di lenirne la sofferenza psichica, valutare come il paziente stia nel mondo – spiega il filosofo e psicoanalista. Da Freud in avanti è aperto, e conflittuale, il dialogo della psicoanalisi e della psicoterapia con la storia, l’antropologia, la sociologia. L’ipotesi del fondatore della psicoanalisi apparve allora sovversiva – ricorda Benasayag – assegnando all’essere umano un inconscio con una vita propria. Il sogno della ragione veniva infranto dalle pulsioni e dai desideri cui tutti noi siamo assoggettati. Ne risultava scardinato il progetto della modernità del protagonista cartesiano, guidato dalla ragione, totalizzante ed egemonica sul mondo. La data simbolica del 1900, con il Congresso dei matematici di Parigi, chiudeva un’epoca dominata dall’analiticamente prevedibile. L’aleatorietà iniziava ad affacciarsi,
l’attacco alla base epistemiologica della modernità era iniziato. Accadeva anche nelle arti visive, dove la rottura dell’archetipo estetico della bellezza era sospinta dalle avanguardie: dadaismo, cubismo, surrealismo.
Oggi, a centoventi anni di distanza dalla crisi che dall’inizio del Novecento si è estesa all’intero secolo, siamo immersi in un’ancor più devastante crisi, continuazione della precedente. Ormai improponibile è il dispositivo cartesiano che al suo centro poneva un uomo maschio, occidentale, nel fiore degli anni, il cui oggetto era quella natura di cui si professava ago e possessore.
L’opposizione tra il soggetto uomo e l’oggetto mondo, mito fondante della modernità occidentale sconosciuto ad altre culture, è ormai improponibile. Non giudica quel modello Benasayag: ha inventato il mondo, colonizzandolo con le sue tecniche, producendo il meglio e il peggio. Ma oggi è all’origine della crisi della cultura occidentale: una catastrofe, nel senso di rottura e cambiamento irreversibile. Devastanti gli effetti dell’antropocentrismo: nell’epoca moderna l’attività umana ha modificato persino la sostanza geologica del pianeta e di tutti gli esseri viventi – argomenta Benasayag. E chiama “ritorno dall’esilio” il rientro dell’uomo nel mondo: allora capirà di non essere mai partito e si renderà conto di quanto ha fatto contro la natura e se stesso. Non più cartesiano, l’uomo occidentale prima soggetto della natura dovrà imparare a condividere l’ambiente con altri soggetti, che tali diventeranno anche di diritto. Oggi sappiamo come ogni uomo sia un
ecosistema, legato all’insieme degli ecosistemi: l’opposto dell’individualità dell’essere autonomo, ideale della modernità.
Citando il filosofo argentino Rodolfo Kusch, Benasayag entra nei dettagli dei due diversi modi di pensare e abitare il mondo.
Il mondo dell’”essere” occidentale, sospinto dalla mancanza che alimenta perennemente il desiderio e l’insoddisfazione conseguente, è intrappolato in un concetto di tempo solo presente, mai passato né futuro. L’habitat è la grande città, dove rifugiarsi per non subire la natura, protetti dal suo sistema di norme. Vi si vivono esistenze sempre in progetto ma incompiute, mentre la promessa del futuro si è trasformata in minaccia.
Alternativo all’Occidente è il mondo dello “stare”: completo in sé, non fatalista bensì caratterizzato da un diverso modo di assumere le sfide, che rispetti i cicli naturali, biologici, culturali di un universo in cui tutto è incluso in un insieme, noi compresi. Dove la pienezza della vita presente non contempla un futuro immaginato come promessa né come minaccia.
Le opposte figure della verticale e della spirale visualizzano i due diversi modi di abitare il mondo.
Alla luce di tali considerazioni filosofiche, Benasayag afferma l’impossibilità odierna di fare clinica ignorando tale cambiamento epocale. Il mondo non rimane più fuori dal consultorio ma vi entra insieme al paziente: starà al clinico capire come vi si manifesta. Stante tale premessa la clinica del legame dovrà trovare un equilibrio perché bisognerà lenire la sofferenza del paziente senza dissertare di filosofia o antropologia. Se il nostro futuro appare ormai come una minaccia – e la pandemia da Covid lo ha rivelato in tutta la sua drammaticità – il clinico deve assumere la consapevolezza di essere accomunato al paziente dall’impossibilità di prevedere, senza potergli offrire garanzie con il proprio agire.
Oltre alla sua lunga esperienza clinica, Benasayag che è anche ricercatore di interfacce tra mondo digitale e biologico, rileva come nell’esperienza angosciante e depressiva che è diventato il vivere, attanagliati dal senso di impotenza, si inserisca l’incontro dell’umanità ferita con le macchine logiche. La ragione fallita delega sempre più alla macchina che, non avendo un corpo deperibile né pulsioni incontrollate, funzionerà sempre se riparata. Ma l’assimilazione ormai in atto tra il nostro cervello e il dispositivo tecnologico porta ad interpretare anche le nostre sofferenze psicologiche quali problemi di circuiti da riparare per tornare a funzionare. Anche la sofferenza sarà considerata un malfunzionamento asemantico, non un modo di essere del paziente nel mondo. In tale prospettiva si inserisce la clinica del legame, che deve resistere alla cultura dominante dell’essere funzionante per dedicarsi invece all’essere umano. Certo il paziente può chiedere di funzionare ma, secondo Benasayag, il terapeuta deve operare una clinica del funzionamento (inevitabile e
supportata da farmaci e tecniche) in relazione all’esistenza, ovvero senza tagliare il legame con se stesso di un essere umano che abita il mondo, con le sue complessità e contraddizioni. Accettando che una falla che ci costituisce non sia un difetto ma la nostra singolarità. Nella clinica situazionale o dei legami il terapeuta esplora insieme al paziente cosa significhi convivere con la sofferenza, contando di trovare in sé quell’intimità che permetterà di focalizzarsi sull’universo interiore e non su una ristretta combinazione di funzionamenti. Da parte sua il clinico dovrà assumere il coraggio di non sapere: nucleo condiviso, specchio dell’epoca contemporanea, intorno al quale si creeranno legami. Né egli dovrà imporre al paziente le proprie certezze terapeutiche, piuttosto aiutarlo nel suo cammino esistenziale, verso un’incertezza sopportabile per lui, per la sua famiglia e per il suo ambito.
Michael Garrett psichiatra, Clinical Professor of Psychiatry, Vice Chairman for Clinical Services, SUNYDownstate. Faculty, Psychoanalytic Institute at NYU Medical Center
Marco Solmi psichiatra, Professore Associato, Università di Ottawa, Canada
Tommaso Boldrini psicologo clinico e psicoterapeuta, ricercatore, Università di Padova
Vittorio Lingiardi psichiatra e psicoanalista, Professore Ordinario di Psicologia Dinamica, Sapienza Università di Roma, Presidente SPR-IAG (Italy Area Group)
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la schizofrenia è un disturbo mentale che produce elevati livelli di disabilità e che colpisce circa 21 milioni di persone a livello globale, di cui il 50% non riceve cure appropriate (OMS, 2017). Se fino a pochi decenni fa i disturbi psicotici venivano descritti come malattie cerebrali degenerative (ipotizzando l’esistenza di un unico processo biologico sottostante), oggi le evidenze scientifiche indicano sindromi dai confini più complessi e variegati, che è possibile prevenire e ripensare in termini di “recovery”. Questo seminario propone una rilettura clinico-scientifica degli interventi psicoterapeutici e biologici – e della loro efficacia – attualmente impiegati per il trattamento dei disturbi psicotici. Verrà anche proposta e una riflessione storico-culturale su come i diversi paradigmi si siano evoluti nel corso del tempo.
Verrà illustrato un modello integrato di psicoterapia (Garrett, 2021) che combina l’approccio cognitivo-comportamentale con quello psicodinamico in due fasi sequenziali: una fase iniziale in cui vengono principalmente utilizzate tecniche CBT per esaminare la falsità letterale delle idee deliranti e una seconda in cui si utilizza un approccio psicodinamico per esaminare la verità figurativa (il significato personale specifico) contenuta nei sintomi psicotici. Questo modello sembra presentare le potenzialità per superare sia i limiti del modello CBT-p, più focalizzato su specifici contenuti cognitivi che sugli aspetti fenomenologici nucleari dei disturbi psicotici, sia quelli del modello psicodinamico classico, che tende a porre un’attenzione eccessiva e precoce all’interpretazione dei significati inconsci dei sintomi a discapito dei meccanismi cognitivi del paziente e dell’esperienza cosciente dei suoi sintomi.
Saranno inoltre discussi i risultati più recenti degli studi di meta-analisi e di coorte sull’efficacia e la tollerabilità dei trattamenti biologici (farmacologi e non) nei bambini, negli adolescenti e negli adulti. A seguito della scoperta dei neurolettici – un fortunato caso di serendipità – la psicofarmacologia è oggi l’approccio dominante nel trattamento delle psicosi acute e svolge un ruolo significativo per molti pazienti nella prevenzione delle ricadute. Una riflessione sulle terapie biologiche più innovative e sicure, e su una corretta gestione dei farmaci, risulta fondamentale per gli operatori sanitari che, in prima linea, si trovano ad affrontare complessi processi di decision-making sui rischi e i benefici degli interventi pianificati.
Oltre alla necessità di promuovere interventi clinici (biologici e psicosociali) efficaci, le evidenze indicano che il timing di tali interventi risulta altrettanto fondamentale. Lo psichiatra e psicoanalista Harry Stuck Sullivan scriveva nel 1927: «Sono certo che molti casi incipienti [di schizofrenia] potrebbero essere trattati e risolti ben prima che il contatto con la realtà sia irrimediabile sospeso e una lunga permanenza nelle strutture istituzionali diventi necessaria». A distanza di quasi un secolo, di quali strumenti preventivi disponiamo per raggiungere tale obiettivo? Oggi abbiamo a disposizione strumenti per individuare adolescenti e giovani adulti che, pur non soddisfacendo i criteri diagnostici per una psicosi sindromica, vengono considerati ad alto rischio di sviluppare un disturbo psicotico in un periodo di tempo relativamente breve (il rischio stimato di sviluppare un disturbo psicotico è del 15-40% nei 12-36 mesi successivi alla valutazione diagnostica). Verranno presentati sia i principali strumenti diagnostici per individuare giovani a rischio di psicosi sia i protocolli di trattamento preventivi più utilizzati e potenzialmente più sicuri, accettabili ed efficaci di quelli offerti nelle fasi successive del decorso del disturbo.
Lectio di Michael Garrett
“Aspetti dinamici e cognitivi della psicoterapia delle psicosi”
Lectio di Tommaso Boldrini
“Stati mentali a rischio di psicosi: valutazione e intervento precoce”
Lectio di Marco Solmi
“I trattamenti biologici della schizofrenia nei bambini, negli adolescenti e negli adulti”